La popolazione italiana residente alla fine del 1995 è pari a circa 57.331.000 unità. Il tasso medio di incremento rispetto al 1994 è dell'1,1 per mille e risulta dimezzato rispetto a quello registrato tra il 1993 e il 1994 (+2,3 per mille). Al Centro (1,1 per mille) e soprattutto al Nord (0,4 per mille), la crescita demografica è stata molto debole; queste tendenze sono state in parte compensate dall'incremento di popolazione nelle regioni del Mezzogiorno (1,9 per mille).
Nel 1995 si è registrato un saldo negativo tra nati vivi e morti di circa 32.000 unità, maggiore rispetto all'anno precedente, quando i decessi avevano superato le nascite per circa 20.000 unità. Ciò è legato essenzialmente al declino delle nascite, in atto dalla seconda metà degli anni '70. In particolare, nel 1995, i nati vivi sono stati 515.000 (537.000 del 1994). Il numero medio di figli per donna, che già nel 1990 si collocava a un livello tra i più bassi del mondo, ha continuato a diminuire ed è oggi pari a 1,16.
La modesta crescita della popolazione italiana si deve quindi attribuire al movimento migratorio che ha bilanciato la dinamica naturale negativa. Il saldo migratorio con l'estero ha raggiunto nel 1995 un valore positivo pari a 61.000 unità contro le 45.000 del 1994.
I cittadini stranieri in regola con le norme di soggiorno alla fine del 1995 erano oltre 700.000. Rispetto al 1994 si registra un tasso di incremento del 6,4%, due punti percentuali in più rispetto alla variazione dell'anno precedente.
Il motivo principale della presenza straniera è lo svolgimento di un'attività lavorativa. I permessi di soggiorno rilasciati per motivi di lavoro rappresentano circa il 60% del totale. I lavoratori stranieri si dirigono di preferenza verso le aree del Paese dove il mercato offre maggiori prospettive di inserimento regolare nel mondo del lavoro. Infatti, la maggior parte degli stranieri è concentrata nelle regioni settentrionali dove, alla fine del 1995, risulta rilasciato più del 55% del totale dei permessi.
Gran parte della futura evoluzione della popolazione è scritta nella attuale struttura demografica: i bassi livelli di fecondità che caratterizzano l'Italia da diversi anni hanno dato luogo a generazioni sempre meno numerose (da più di un milione di nati vivi nel 1964 a 515.000 del 1995) che, a parità di comportamenti riproduttivi, a loro volta daranno luogo a contingenti più ridotti di nascite negli anni a venire. Allo stesso tempo, è in atto un processo di invecchiamento della popolazione, causato tanto dalla bassa fecondità quanto dalla diminuzione della mortalità.
La struttura della popolazione si modificherà in misura notevole. Nel 2020 gli anziani dovrebbero costituire circa un quarto del totale. Nonostante il prevedibile apporto dell'immigrazione, le persone in età attiva, che costituiscono un contingente di importanza cruciale per lo sviluppo economico del Paese, dovrebbero diminuire progressivamente, a causa dell'ingresso delle generazioni meno numerose nate negli anni '80 e '90.
Nel corso degli ultimi anni è stato avviato un processo di riorganizzazione del sistema di welfare che ha determinato una significativa riduzione della crescita delle spese. Restano aperti numerosi problemi legati alla sostenibilità sociale ed economica delle trasformazioni in atto. Vi sono preoccupazioni soprattutto sulla capacità di dare una risposta efficace ai bisogni delle categorie più deboli.
Nel 1995 è stato completato il processo di riforma del sistema pensionistico, con l'introduzione di un metodo di calcolo delle prestazioni completamente nuovo e con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, seppure all'interno di uno schema gestito con il meccanismo finanziario della ripartizione. Il valore delle prestazioni pensionistiche diventerà funzione dell'ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa, progressivamente a partire dal 1996, fino a pervenire alla situazione a regime dopo il 2030.
Obiettivi della riforma sono la maggiore equità intragenerazionale e la sostenibilità di lungo periodo. Sotto il primo profilo, i provvedimenti del 1995 hanno uniformato la normativa tra diverse categorie di lavoratori. L'andamento di lungo periodo della spesa pensionistica dipenderà comunque, in misura rilevante, dall'evoluzione dell'occupazione. La possibilità di conseguire la sostenibilità finanziaria è stata contestata da più parti: si è affermato, in particolare, che la riforma mantiene in vigore alcune norme che, nel lungo periodo, potrebbero causare un aggravio di spesa. Le critiche si sono appuntate sul mantenimento a regime del differenziale di età pensionabile tra maschi e femmine, sulla scelta di un'età minima di pensionamento troppo bassa e sulla durata della fase transitoria, perché i più consistenti risparmi di spesa indotti dalla riforma si avranno soltanto dopo il 2030. Infine, è stato sollevato il problema derivante dall'insufficiente livello di indicizzazione dei valori reali delle pensioni.
L'effettiva capacità del nuovo sistema di mantenere l'equilibrio finanziario, senza dover tagliare ulteriormente il valore reale delle pensioni o aumentare i livelli di contribuzione, dipende fortemente dall'evoluzione demografica. Ferme le caratteristiche in atto, intorno al 2030 inizieranno ad andare in pensione le generazioni numerose degli anni '60, le quali dovranno essere sostenute dagli attivi delle generazioni meno numerose degli anni '90.
Nel periodo compreso tra il 1992 e il 1994 ci sono stati altri mutamenti nel quadro normativo della previdenza, con un impatto importante sull'evoluzione congiunturale delle prestazioni pensionistiche di tipo IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti). Gli effetti complessivi dei provvedimenti normativi di blocco della liquidazione delle pensioni di anzianità sull'andamento del numero delle prestazioni e della relativa spesa hanno inciso soprattutto sul settore pubblico. Il tasso di crescita delle pensioni IVS è diminuito in complesso dal 2,6% all'1,4% tra il 1991 e il 1994.
Uno dei problemi affrontati dalla riforma pensionistica è stato quello del cumulo di più pensioni: l'assegno di invalidità erogato dall'INPS (Istituto nazionale per la previdenza sociale) sarà ridotto fino al 50% dell'importo, in caso di cumulo con redditi da lavoro dipendente o autonomo. Nel 1994 il numero di pensioni di invalidità è stato pari a circa 7 milioni, un terzo del totale delle prestazioni pensionistiche. Dall'inizio degli anni '80, esso è continuamente diminuito, con una velocità sempre maggiore. Tuttavia, ancora oggi, nelle regioni meridionali, ogni due pensioni una è di invalidità. Dall'inizio degli anni '90, alla riduzione del numero delle pensioni di invalidità previdenziali si è unito il rallentamento del tasso di crescita di quelle assistenziali.
I processi d'invecchiamento in atto impongono di dedicare un'attenzione particolare alla qualità della vita della popolazione anziana. Un problema sociale di notevole importanza è rappresentato da una quota significativa di anziani multicronici (il 52,0% degli uomini e il 60,7% delle donne ultrasessantacinquenni) i quali, spesso, vivono da soli o in piccoli nuclei. La situazione delle donne anziane è, per questo aspetto, peggiore di quella degli uomini: le donne sperimentano più frequentemente la solitudine in età anziana, per effetto della loro più elevata speranza di vita e della differenza media di età nella coppia.
Un secondo aspetto importante dello stato di salute è rappresentato dal grado di autonomia posseduto nello svolgimento delle funzioni della vita quotidiana. La disabilità coinvolge oltre 2.600.000 individui, riguarda soprattutto le persone anziane (oltre il 75% dei disabili ha compiuto 60 anni) e ha una maggiore incidenza tra le donne. Un dato allarmante è rappresentato dai 618.000 disabili che vivono soli e che costituiscono il 24% del totale. Quasi un milione di persone è confinato a letto, su una sedia o in un'abitazione.
Il livello di istruzione dei disabili e dei malati cronici è significativamente inferiore a quello del resto della popolazione nelle stesse classi di età. Tali condizioni delineano un quadro particolarmente sfavorevole per una quota significativa di soggetti deboli. Da una parte, il basso livello d'istruzione contribuisce a determinare percorsi di vita e professionali che favoriscono l'insorgere di disabilità; dall'altra, i disabili, specialmente in età giovanile, incontrano barriere di vario genere all'accesso all'istruzione e alle risorse culturali.
Anche nel settore sanitario è proseguito nel 1995 il processo di riorganizzazione iniziato con la riforma del 1992. La trasformazione delle USL (Unità sanitarie locali) e di alcune strutture ospedaliere in aziende non ha ancora determinato forti modificazioni nei comportamenti della domanda, mentre dal punto di vista dell'offerta non si è ancora ridotto l'eccesso di posti letto per degenti acuti presente in molte regioni (circa 70.000 in più rispetto agli standard definiti dalla legge). D'altra parte, l'invecchiamento della popolazione determinerà, al contrario, nei prossimi anni, l'esigenza di un aumento del numero di posti letto dedicati a pazienti lungodegenti per i quali il fabbisogno aggiuntivo è stimato in circa 24.000 posti letto.
La riforma ha puntato alla razionalizzazione della struttura organizzativa e al miglioramento della qualità dei servizi sanitari. Tuttavia, i tempi di attuazione e le modalità di realizzazione di tale progetto sono ampiamente differenziati per tipologia di strutture sanitarie e per territorio.
Il settore dell'assistenza è stato toccato indirettamente dalle modifiche normative introdotte nel sistema di sicurezza sociale. La riforma ha elevato l'importo delle pensioni sociali erogate ad anziani indigenti e ha abolito l'integrazione al minimo sulle pensioni previdenziali.
Il peso delle pensioni sociali è di circa 78 pensioni per 1.000 anziani ultrasessantantacinquenni. La distribuzione territoriale mostra una forte concentrazione del fenomeno nelle regioni meridionali (105 per mille). Il bisogno di assistenza riguarda soprattutto le donne. Le pensioni sociali mostrano, tuttavia, una tendenza alla diminuzione. Le attuali ultrasessantacinquenni sono donne appartenenti a generazioni che non hanno sperimentato livelli elevati di partecipazione al mercato del lavoro. Ciò ha determinato l'impossibilità di usufruire di una pensione previdenziale in età anziana. Nel futuro, le donne presenteranno anzianità contributive più elevate e ciò permetterà a un numero sempre maggiore di lavoratrici di usufruire di una prestazione pensionistica di vecchiaia. Ne deriverà una riduzione nel tempo dell'incidenza delle pensioni sociali.
La riduzione dell'intervento pubblico diretto per l'assistenza, in presenza di una domanda crescente ha fatto aumentare l'attenzione per le associazioni del settore non profit e del volontariato.
L'intervento assistenziale pubblico si concentra nelle regioni meridionali; il volontariato è localizzato prevalentemente nelle regioni settentrionali. I livelli di efficienza di molti dei servizi erogati non sono in generale adeguati ai bisogni. In particolare, le strutture assistenziali sono numerose, ma hanno una dimensione spesso insufficiente a raggiungere economie di scala nella produzione dei servizi.
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