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Corriere della Sera
Giovedì, 18 Settembre 1997
Cultura

 

COMPENDI Esce la Garzantina della grammatica e

della sintassi a cura di Luca Serianni. Che avverte:

siamo conservatori, nonostante l'uso di parole

straniere

 

ITALIANO Ma la lingua non è corrotta

 

«Si nota qualche mutamento che è segno dei tempi.

Per esempio l'espansione di alcuni prefissi

come "tele-" e l'eccessiva diffusione delle sigle»

 

di PAOLO DI STEFANO

 

Chi dice che la nostra lingua è stata guastata dagli eccessivi

innesti di anglicismi si sbaglia di grosso. Luoghi comuni. Sì,

va bene, qualche prestito è inevitabile in tempi ad alto tasso

tecnologico. Ma la lingua italiana è essenzialmente una lingua

conservativa, refrattaria ai cambiamenti. E' quanto sostiene

Luca Serianni, autore di una Garzantina sulla grammatica e la

sintassi dell'italiano che riprende un volume uscito dieci anni

fa per la Utet e che sarà in libreria fra qualche giorno (pagine

609, lire 42.000).

 

A Serianni, che insegna Storia della lingua all'Università di

Roma, non piacciono per nulla i continui lamenti sulla

corruzione dell'italiano: «Quel che fa testo è l'uso reale.

Ovviamente non si tratta di accogliere tutto liberamente, ci

sono consuetudini del linguaggio familiare che non possono

diventare norma; così come non devono dettar legge le forme

auliche o letterarie. Non voglio dire che per la grammatica

vale solo la maggioranza; però se una forma che prima non

veniva accolta si diffonde e si generalizza è necessario

prenderne atto nel consigliare l'utente. Insomma, diciamo che

per allestire una grammatica bisogna tener conto del livello

medio, quello, per intenderci, di un buon articolo di giornale,

né troppo elevato né troppo basso o familiare».

 

A proposito di giornali, Serianni insiste sulla tendenza

conservativa: «Lo spirito che anima molti italiani, sul piano

linguistico, è dimostrato dai molti lettori che segnalano i

presunti strafalcioni, l'eccesso di novità, i cattivi usi. Ma

questo non è un carattere esclusivo degli italiani: si pensi alle

discussioni che in Francia ha scatenato la riforma

ortografica». Ciò non toglie che il linguista riconosca che

qualche mutamento, sia pure non tumultuoso come spesso si

lamenta, in effetti è avvenuto.

 

Qualche esempio? «L'espansione di alcuni prefissoidi come

"tele-", usato in combinazioni molto diversificate: per

significare la distanza nel caso di teleconferenza; oppure per

indicare qualcosa di relativo alla tv, come teleacquisto e

telecomando; o ancora con riferimento al telefono, come in

teleselezione». E altro? C'è altro: il dilagare delle sigle (gli

«acronimi dell'informatica», dice Serianni), da Pc a MsDos. «E

poi alcune forme che già esistevano, ma che ora proliferano

creando a volte problemi morfologici. Per esempio nel

distinguere tra singolare e plurale, tra maschile e femminile:

vip, colf, prof...». A ciò va aggiunta la tendenza a invertire le

sequenze lessicali in incroci del tipo Cossiga-pensiero o

antibiotico-dipendente.

 

Orrori, urlerà qualcuno. «Forse, ma all'uso - ripete Serianni -

è difficile opporsi. E poi, se è vero che gli elementi unificanti

del nostro Paese non sono moltissimi, la lingua ormai lo è nei

fatti, poiché aumentano i tratti comuni alle varie regioni. Non

dimentichiamo che fino a un secolo fa la nostra lingua non ha

avu- to una vera evoluzione nel parlato, dunque ci troviamo

ancora in una fase di uniformità. Presto, forse, assisteremo a

un'inversione di tendenza». L'ultima indagine Istat rivela che

coloro che usano prevalentemente l'italiano, anche in

famiglia, si sono attestati attorno al 45 per cento della

popolazione: «E' una cifra molto alta se si tiene conto della

nostra tradizione - esclama Serianni -. Gli altri alternano la

lingua nazionale con il dialetto».

 

Già, i dialetti. Che ne è dei dialetti? «Sopravvivono in alcune

zone: naturalmente nel Nord-Est, ma anche in regioni del Sud

come la Campania, la Calabria e la Sicilia. Per non dire della

Sardegna, dove si parla non un dialetto ma una lingua romanza.

C'è anche da ricordare che il dialetto ha avuto un rilancio

negli ultimi vent'anni in poesia e recentemente in ambito

giovanile, con numerosi gruppi rap: è interessante il fatto che

questi gruppi affidino al dialetto la loro carica trasgressiva,

il desiderio di sfuggire all'omologazione dell'inglese».

 

Altro discorso è quello lessicale. Qui il rinnovamento è ben

più diffuso: «Anche su questo piano, però - dice Serianni -, la

lingua mette in moto delle resistenze: molte parole entrano in

veste inglese ma poi ci pensa la morfologia a italianizzarle».

Producendo spesso veri e propri mostri, come formattare. Ci

sono poi, numerosissimi, i cambiamenti di significato

(«semantici», dice il linguista): «Sono i casi in cui una parola

preesistente viene utilizzata in accezioni diver- se:

"polluzione atmosferica", "cancellare un volo", "enfatizzare"

nel senso di "sottolineare", senza più connotazione negativa».

 

Poco male. L'italiano, a quanto pare, ha vissuto rivoluzioni

anche più tumultuose di quelle odierne, come dimostrò un

memorabile saggio di Gianfranco Folena sulla lingua del

Settecento: «Le innovazioni d'oggi sono certo molto pervasive

e le onde attraverso cui si trasmettono sono poderose, ma è

altrettanto vero che in altri secoli abbiamo vissuto situazioni

di bilinguismo con scambi strettissimi fra gli idiomi: la

società colta settecentesca parlava il francese o un italiano

molto francesizzato».

 

Dunque, nessun timore sul nostro destino linguistico? «No, io

sono ottimista - dice Serianni -: i forestierismi non

uccideranno l'italiano. In alcuni casi, ritengo però sia

indispensabile qualche forma di contenimento. Nell'uso

pubblico-amministrativo ad esempio. Per fortuna, un recente

Manuale di stile della Presidenza del Consiglio suggerisce di

evitare stage quando si può dire seminario, meeting se si può

parlare di incontro o riunione. Il dettato pubblico va reso più

chiaro e vanno evitate le forme straniere. Che senso ha

parlare di ticket sanitario? Non si tratta di un biglietto ma

di un contributo... Il ministro Pandolfi poteva evitare questo

anglicismo inutile, in un'accezione usata solo in Italia».

 

Da «roboante» a «che c'azzecca»

Glossario degli strafalcioni

 

Si dice «fa niente»

o «non fa niente»?

«Sé stesso» va

con l'accento

o senza? Quando

si usa «succeduto»

e quando «successo»?

«Ma però»

è accettabile?

 

di GIULIO NASCIMBENI

 

Sta diventando un'ossessione. Da quando Antonio Di Pietro, al

tempo dei processi di Tangentopoli, lanciò il suo «che

c'azzecca?», si è mossa, e continua a crescere, la schiera

immancabile degli imitatori. Qualche giorno fa, proprio sul

Corriere della Sera, si è letto un «c'ammonisce», dopo un

altrettanto recente «c'occorre». E quando il verbo «avere» si

presenta combinato con l'elemento «ci», come rendere

l'elisione della vocale «i»? Non rispondo io alla domanda, ma

un'autorità della nostra lingua come Luca Serianni: «Non si può

scrivere "c'ho", che corrisponderebbe a una pronuncia "k"». E

quindi le citazioni precedenti, da Di Pietro in poi, diventano

«cazzecca», «cammonisce», «coccorre» e «co». È italiano

questo?

 

Sto parlando della parte che conclude la nuova Garzantina,

circa 120 pagine, riunite sotto il titolo Glossario e dubbi

linguistici. Il glossario è a cura di Giuseppe Patota. E i dubbi,

facilmente riconoscibili essendo racchiusi entro riquadri,

sono affrontati da Serianni. Abbiamo dato la precedenza a

quello relativo alla particella pronominale «ci» seguita dalle

vocali «a, o, u» perché, con la scusa del malfermo avallo di Di

Pietro, dilaga come una sgrammaticata moda.

 

Restiamo con questo «ci» tentatore. Qualcuno lo estende alla

terza e sesta persona dei verbi («ci dico» invece che gli dico,

le dico, dico loro). La soluzione del dubbio è giustamente

drastica: «È un tratto fortemente popolare che

squalificherebbe chi l'adoperasse in un testo scritto e che va

evitato anche nel parlare informale».

 

Scegliendo «error da errore» (mi si perdoni questa mezza

freddura), ci imbattiamo in un vezzo assai frequente sui

giornali, specialmente nelle regioni centro-meridionali. Il

vocabolo «vicino» può essere sostantivo, aggettivo o avverbio

di luogo, ma può anche formare la locuzione «vicino a».

Ebbene, in molte cronache si legge che «il delitto è stato

scoperto vicino Roma», che «l'incontro è avvenuto vicino

Napoli». Sentenza: questa forma, priva della «a», non è

grammaticalmente corretta.

 

Ma pensate anche alla formula «e/o», presa dal modello

angloamericano and/or e ormai luogo comune di un certo

scrivere un po' snobistico. Nessuna preclusione d'ordine,

diciamo così, puristico (o, se preferite, autarchico): un

anglicismo in più non disturba troppo. Senza esagerare, però.

Citiamo Serianni: «Sarebbe goffo e pedantesco adoperare

questa formula in una frase attinta dalla banale esperienza

quotidiana come: "Dopo cena leggo romanzi e/o giornali"».

 

Attenzione, adesso: se vi succede di usare questa parola, dite

«reboante» o «roboante»? La forma corretta è la prima,

«reboante», participio del verbo latino reboare, che significa

risuonare, rimbombare, e che fu usato anche da Virgilio.

Eppure predomina la forma spuria «roboante». Serianni ha

condotto un'indagine sull'annata 1995 del Corriere della Sera.

Risultato (e non ci resta che arrossire e abbassare la testa):

la forma corretta ricorre soltanto tre volte contro trentasei

esempi di quella spuria. Si dice «inflativo», «deflativo» e

«collutorio» con una «t» sola, ma «esterrefatto» con la

doppia «r»: basta pensare all'origine latina di exterrere e ai

tanti vocaboli italiani che hanno la stessa radice: da terrore a

terrorismo, da terrorizzare a terribile, ad atterrire. Si noti

che ho scritto «ad atterrire»: è giusta la cosiddetta «"d"

eufonica» di «ad»? È giusta, come «ed», soltanto quando la

parola successiva comincia con la stessa vocale: quindi, «ad

andare» ma «a essere»; quindi «ed era», ma «e ora».

 

Quelli che ho riportato sono una minima parte dei dubbi che

Serianni affronta e risolve: quando può andare «lui» invece di

«egli»? «Ma però» è accettabile? La morte del congiuntivo è

vera o presunta? Sé stesso con l'accento o senza l'accento?

Quando si usa «succeduto» e quando «successo»? Si dice «fa

niente» o «non fa niente»?

 

Ci dev'essere una ragione in queste salutari forme di pronto

soccorso. Purtroppo, l'italiano sembra a volte un'altra lingua

straniera che si aggiri in mezzo a noi. Sarà meglio ripassarne

le regole.