della sintassi a cura di Luca Serianni. Che avverte:
siamo conservatori, nonostante l'uso di parole
straniere
«Si nota qualche mutamento che è segno dei tempi.
Per esempio l'espansione di alcuni prefissi
come "tele-" e l'eccessiva diffusione delle sigle»
di PAOLO DI STEFANO
Chi dice che la nostra lingua è stata guastata dagli eccessivi
innesti di anglicismi si sbaglia di grosso. Luoghi comuni. Sì,
va bene, qualche prestito è inevitabile in tempi ad alto tasso
tecnologico. Ma la lingua italiana è essenzialmente una lingua
conservativa, refrattaria ai cambiamenti. E' quanto sostiene
Luca Serianni, autore di una Garzantina sulla grammatica e la
sintassi dell'italiano che riprende un volume uscito dieci anni
fa per la Utet e che sarà in libreria fra qualche giorno (pagine
609, lire 42.000).
A Serianni, che insegna Storia della lingua all'Università di
Roma, non piacciono per nulla i continui lamenti sulla
corruzione dell'italiano: «Quel che fa testo è l'uso reale.
Ovviamente non si tratta di accogliere tutto liberamente, ci
sono consuetudini del linguaggio familiare che non possono
diventare norma; così come non devono dettar legge le forme
auliche o letterarie. Non voglio dire che per la grammatica
vale solo la maggioranza; però se una forma che prima non
veniva accolta si diffonde e si generalizza è necessario
prenderne atto nel consigliare l'utente. Insomma, diciamo che
per allestire una grammatica bisogna tener conto del livello
medio, quello, per intenderci, di un buon articolo di giornale,
né troppo elevato né troppo basso o familiare».
A proposito di giornali, Serianni insiste sulla tendenza
conservativa: «Lo spirito che anima molti italiani, sul piano
linguistico, è dimostrato dai molti lettori che segnalano i
presunti strafalcioni, l'eccesso di novità, i cattivi usi. Ma
questo non è un carattere esclusivo degli italiani: si pensi alle
discussioni che in Francia ha scatenato la riforma
ortografica». Ciò non toglie che il linguista riconosca che
qualche mutamento, sia pure non tumultuoso come spesso si
lamenta, in effetti è avvenuto.
Qualche esempio? «L'espansione di alcuni prefissoidi come
"tele-", usato in combinazioni molto diversificate: per
significare la distanza nel caso di teleconferenza; oppure per
indicare qualcosa di relativo alla tv, come teleacquisto e
telecomando; o ancora con riferimento al telefono, come in
teleselezione». E altro? C'è altro: il dilagare delle sigle (gli
«acronimi dell'informatica», dice Serianni), da Pc a MsDos. «E
poi alcune forme che già esistevano, ma che ora proliferano
creando a volte problemi morfologici. Per esempio nel
distinguere tra singolare e plurale, tra maschile e femminile:
vip, colf, prof...». A ciò va aggiunta la tendenza a invertire le
sequenze lessicali in incroci del tipo Cossiga-pensiero o
antibiotico-dipendente.
Orrori, urlerà qualcuno. «Forse, ma all'uso - ripete Serianni -
è difficile opporsi. E poi, se è vero che gli elementi unificanti
del nostro Paese non sono moltissimi, la lingua ormai lo è nei
fatti, poiché aumentano i tratti comuni alle varie regioni. Non
dimentichiamo che fino a un secolo fa la nostra lingua non ha
avu- to una vera evoluzione nel parlato, dunque ci troviamo
ancora in una fase di uniformità. Presto, forse, assisteremo a
un'inversione di tendenza». L'ultima indagine Istat rivela che
coloro che usano prevalentemente l'italiano, anche in
famiglia, si sono attestati attorno al 45 per cento della
popolazione: «E' una cifra molto alta se si tiene conto della
nostra tradizione - esclama Serianni -. Gli altri alternano la
lingua nazionale con il dialetto».
Già, i dialetti. Che ne è dei dialetti? «Sopravvivono in alcune
zone: naturalmente nel Nord-Est, ma anche in regioni del Sud
come la Campania, la Calabria e la Sicilia. Per non dire della
Sardegna, dove si parla non un dialetto ma una lingua romanza.
C'è anche da ricordare che il dialetto ha avuto un rilancio
negli ultimi vent'anni in poesia e recentemente in ambito
giovanile, con numerosi gruppi rap: è interessante il fatto che
questi gruppi affidino al dialetto la loro carica trasgressiva,
il desiderio di sfuggire all'omologazione dell'inglese».
Altro discorso è quello lessicale. Qui il rinnovamento è ben
più diffuso: «Anche su questo piano, però - dice Serianni -, la
lingua mette in moto delle resistenze: molte parole entrano in
veste inglese ma poi ci pensa la morfologia a italianizzarle».
Producendo spesso veri e propri mostri, come formattare. Ci
sono poi, numerosissimi, i cambiamenti di significato
(«semantici», dice il linguista): «Sono i casi in cui una parola
preesistente viene utilizzata in accezioni diver- se:
"polluzione atmosferica", "cancellare un volo", "enfatizzare"
nel senso di "sottolineare", senza più connotazione negativa».
Poco male. L'italiano, a quanto pare, ha vissuto rivoluzioni
anche più tumultuose di quelle odierne, come dimostrò un
memorabile saggio di Gianfranco Folena sulla lingua del
Settecento: «Le innovazioni d'oggi sono certo molto pervasive
e le onde attraverso cui si trasmettono sono poderose, ma è
altrettanto vero che in altri secoli abbiamo vissuto situazioni
di bilinguismo con scambi strettissimi fra gli idiomi: la
società colta settecentesca parlava il francese o un italiano
molto francesizzato».
Dunque, nessun timore sul nostro destino linguistico? «No, io
sono ottimista - dice Serianni -: i forestierismi non
uccideranno l'italiano. In alcuni casi, ritengo però sia
indispensabile qualche forma di contenimento. Nell'uso
pubblico-amministrativo ad esempio. Per fortuna, un recente
Manuale di stile della Presidenza del Consiglio suggerisce di
evitare stage quando si può dire seminario, meeting se si può
parlare di incontro o riunione. Il dettato pubblico va reso più
chiaro e vanno evitate le forme straniere. Che senso ha
parlare di ticket sanitario? Non si tratta di un biglietto ma
di un contributo... Il ministro Pandolfi poteva evitare questo
anglicismo inutile, in un'accezione usata solo in Italia».
Da «roboante» a «che c'azzecca»
Glossario degli strafalcioni
Si dice «fa niente» o «non fa niente»?
«Sé stesso» va
con l'accento
o senza? Quando
si usa «succeduto»
e quando «successo»?
«Ma però»
è accettabile?
di GIULIO NASCIMBENI
Sta diventando un'ossessione. Da quando Antonio Di Pietro, al
tempo dei processi di Tangentopoli, lanciò il suo «che
c'azzecca?», si è mossa, e continua a crescere, la schiera
immancabile degli imitatori. Qualche giorno fa, proprio sul
Corriere della Sera, si è letto un «c'ammonisce», dopo un
altrettanto recente «c'occorre». E quando il verbo «avere» si
presenta combinato con l'elemento «ci», come rendere
l'elisione della vocale «i»? Non rispondo io alla domanda, ma
un'autorità della nostra lingua come Luca Serianni: «Non si può
scrivere "c'ho", che corrisponderebbe a una pronuncia "k"». E
quindi le citazioni precedenti, da Di Pietro in poi, diventano
«cazzecca», «cammonisce», «coccorre» e «co». È italiano
questo?
Sto parlando della parte che conclude la nuova Garzantina,
circa 120 pagine, riunite sotto il titolo Glossario e dubbi
linguistici. Il glossario è a cura di Giuseppe Patota. E i dubbi,
facilmente riconoscibili essendo racchiusi entro riquadri,
sono affrontati da Serianni. Abbiamo dato la precedenza a
quello relativo alla particella pronominale «ci» seguita dalle
vocali «a, o, u» perché, con la scusa del malfermo avallo di Di
Pietro, dilaga come una sgrammaticata moda.
Restiamo con questo «ci» tentatore. Qualcuno lo estende alla
terza e sesta persona dei verbi («ci dico» invece che gli dico,
le dico, dico loro). La soluzione del dubbio è giustamente
drastica: «È un tratto fortemente popolare che
squalificherebbe chi l'adoperasse in un testo scritto e che va
evitato anche nel parlare informale».
Scegliendo «error da errore» (mi si perdoni questa mezza
freddura), ci imbattiamo in un vezzo assai frequente sui
giornali, specialmente nelle regioni centro-meridionali. Il
vocabolo «vicino» può essere sostantivo, aggettivo o avverbio
di luogo, ma può anche formare la locuzione «vicino a».
Ebbene, in molte cronache si legge che «il delitto è stato
scoperto vicino Roma», che «l'incontro è avvenuto vicino
Napoli». Sentenza: questa forma, priva della «a», non è
grammaticalmente corretta.
Ma pensate anche alla formula «e/o», presa dal modello
angloamericano and/or e ormai luogo comune di un certo
scrivere un po' snobistico. Nessuna preclusione d'ordine,
diciamo così, puristico (o, se preferite, autarchico): un
anglicismo in più non disturba troppo. Senza esagerare, però.
Citiamo Serianni: «Sarebbe goffo e pedantesco adoperare
questa formula in una frase attinta dalla banale esperienza
quotidiana come: "Dopo cena leggo romanzi e/o giornali"».
Attenzione, adesso: se vi succede di usare questa parola, dite
«reboante» o «roboante»? La forma corretta è la prima,
«reboante», participio del verbo latino reboare, che significa
risuonare, rimbombare, e che fu usato anche da Virgilio.
Eppure predomina la forma spuria «roboante». Serianni ha
condotto un'indagine sull'annata 1995 del Corriere della Sera.
Risultato (e non ci resta che arrossire e abbassare la testa):
la forma corretta ricorre soltanto tre volte contro trentasei
esempi di quella spuria. Si dice «inflativo», «deflativo» e
«collutorio» con una «t» sola, ma «esterrefatto» con la
doppia «r»: basta pensare all'origine latina di exterrere e ai
tanti vocaboli italiani che hanno la stessa radice: da terrore a
terrorismo, da terrorizzare a terribile, ad atterrire. Si noti
che ho scritto «ad atterrire»: è giusta la cosiddetta «"d"
eufonica» di «ad»? È giusta, come «ed», soltanto quando la
parola successiva comincia con la stessa vocale: quindi, «ad
andare» ma «a essere»; quindi «ed era», ma «e ora».
Quelli che ho riportato sono una minima parte dei dubbi che
Serianni affronta e risolve: quando può andare «lui» invece di
«egli»? «Ma però» è accettabile? La morte del congiuntivo è
vera o presunta? Sé stesso con l'accento o senza l'accento?
Quando si usa «succeduto» e quando «successo»? Si dice «fa
niente» o «non fa niente»?
Ci dev'essere una ragione in queste salutari forme di pronto
soccorso. Purtroppo, l'italiano sembra a volte un'altra lingua
straniera che si aggiri in mezzo a noi. Sarà meglio ripassarne
le regole.