Ma anche gli inglesi scrivono «mafiosos» e «referendums»
Beppe Severgnini
Il quotidiano The Independent scrive che gli italiani, quando parlano o
scrivono in inglese, sono ridicoli. Feriti nell'orgoglio intendiamo
difenderci.
Per cominciare, signori della corte, vediamo l'accusa. Il quotidiano
britannico - non più venduto come un tempo, ma tant'è - sostiene che in
Italia gli innamorati si salutano con «Hallo, honeychop» (traduzione:
ciao, dolcezza), un'espressione appresa dalla pubblicità; che i
giornali sono pieni di parole come «story», «lady», «vip» e «baby»
(anche quando si parla di pensionati 45enni); che viene usata ad
nauseam la parola «killer». A tutti questi vocaboli, prosegue l'autore
dell'articolo (quattro colonne nelle pagine interne, con foto di
Lamberto Dini), gli italiani non aggiungono neppure la «s» al plurale.
In sostanza, sostiene il quotidiano londinese, «è impossibile penetrare
le mistificazioni linguistiche della moderna cultura italiana senza
conoscere la lingua inglese». Ebbene, signori della corte, lasciateci
esprimere un dubbio: e se sotto la nostra commovente esterofilia, si
celasse una rustica astuzia? L'adozione di alcuni vocaboli inglesi è
dettata, in fondo, dal buon senso. I «film di cowboy» saranno sempre
più attraenti di «lungometraggi sui ragazzi delle mucche». Chi
intendesse combattere contro le parole come «film» e «cowboy», perciò,
sarebbe un kamikaze: e noi italiani, per questo tipo di eroismi, non
abbiamo la stoffa.
Non solo. Molte parole ci appartengono, come «facsimile» (da cui
«fax»), «plus» o «mass media»: ci siamo limitati a riprendercele.
Inoltre, come sostiene il filologo americano Stuard B. Flexner (che
citiamo tra i testimoni della difesa), «l'inglese è una lingua che non
si ama: si usa». Noi lo facciamo: alla nostra maniera. Nella nostra
protervia linguistica c'è molta praticità - e solo un po' di sadismo.
Quando il principe Carlo e l'ultraconservatore Enoch Powell si
lamentano «per le violenze che la loro lingua subisce nel mondo», ci
ribelliamo. Quella lingua non è più loro. L'hanno affittata al mondo,
ne hanno ricavato un buon prezzo e molte facilitazioni. Oggi l'inglese
è di tutti; anche nostro, quindi. Quello che possiamo fare, al massimo,
è rilasciare regolare ricevuta.
C'è dell'altro, signori della corte. Nei secoli, l'inglese ha praticato
identiche violenze. Viaggio dopo viaggio, guerra dopo guerra, ha
arraffato, masticato, maciullato e digerito decine di migliaia di
vocaboli, anche italiani (tra cui: ciao, bandito, spaghetti, ravioli,
piano, sottovoce, dolce vita e - naturalmente - mafioso). Alcune di
queste parole sono state manomesse: in inglese, oggi, «confetti» vuol
dire «coriandoli»; «bimbo» è una bella ragazza un po' stupida. Ora è
giunta l'ora - dolcissima - della vendetta: noi prendiamo le parole
inglesi e ne facciamo quello che vogliamo.
Molti nostri abusi, oltretutto, hanno una spiegazione logica. Sapete
perché i giornali ricorrono spesso a parole inglesi? Perché sono corte:
l'orribile «vip» ha tre lettere; «persona molto importante», ventidue.
Il killer è lungo metà dell'assassino.
Non abbiamo finito, signori giurati. L'accusa - nella persona di Andrew
Gumbel, corrispondente dell'Independent da Roma - lamenta il fatto che
noi italiani prendiamo i vocaboli inglesi e non ci preoccupiamo neppure
di mettere la «s» al plurale. E perché dovremmo? Film e sport sono
ormai parole italiane. Gli inglesi, forse, si degnano di scrivere
«mafiosi» e «referenda»? No: dicono «mafiosos» e «referendums». Quindi,
pari siamo. La nostra colpa, semmai, è usare parole inglesi quando
esiste un equivalente italiano («pubblico» per «audience»; «quota» per
«share»); e di usarle credendo che siano importanti. Ma anche qui,
signori giurati, invochiamo le attenuanti: l'uso indiscriminato di
parole come «manager» (un capoufficio che si è montato la testa) e
«briefing» (il suddetto capoufficio ti deve dire qualcosa) servono a
rendere più allegra la giornata di lavoro. E togliere ai nostri
governanti la possibilità di parlarci di «welfare» è pericoloso: c'è il
rischio di capire le cose che vanno tramando.
Siamo alle conclusioni, signori giurati. Chiediamo l'assoluzione del
popolo italiano perché il fatto non sussiste. Noi non prendiamo
malamente in prestito, come sostiene Andrew Gumbel sull'Independent.
Noi rubiamo, che è un'altra cosa.
Per informazioni e suggerimenti:
Stefania Spina
sspina@sspina.it