destra si parlò di «delitto cattocomunista». La rivista «MicroMega» riapre la
discussione
Cesare Segre: «Tutti uguali ma sul piano dell'ignoranza»
Edoardo Sanguineti: «Chi prega deve sapere cosa dice»
Chi ha ucciso il latino? Semplice, il delitto è stato consumato da un
complotto cattocomunista. Così, almeno, la pensavano un tempo i
difensori della lingua di Cicerone. Sì, perché a ben guardare, a far
fuori il latino sono stati innanzitutto i riformatori di sinistra che
sin dal dopoguerra hanno fatto dell'abolizione del latino nelle scuole
medie un vero e proprio simbolo ideologico, quasi che rinunciando al
latino si desse una picconata alla scuola di classe. Battaglia vinta,
in nome della popolarità se non del populismo. E proprio mentre il
parlamento italiano rinnovava (si fa per dire) la scuola media, la
Chiesa cattolica celebrava il secondo Concilio vaticano da cui emergeva
l'esigenza «pastorale» di aprire la liturgia ad altre lingue.
A ricordarci ora quella doppia spinta ai danni della lingua latina è
Giancarlo Rossi, architetto per professione, ma soprattutto («per
intervalla insaniae», come dice lui stesso) convinto assertore
dell'utilità di conoscere la cultura antica e redattore della rivista
«Latinitas» oltre che frequentatore assiduo del circolo milanese
«Sodalitas latina». Ed è curioso che sia proprio un periodico di
sinistra a farsi portavoce di questa appassionata difesa della lingua
degli avi: l'articolo di Rossi, che si presenta come una appassionata e
«argomentata difesa dell'importanza e dell'attualità della lingua che
ha formato la nostra civiltà», apparirà sul prossimo numero di
«MicroMega». Il latino, secondo Rossi, è stato un palese «segno di
contraddizione» nella nostra società. Innanzitutto per la scuola: per
un quindicennio, nel dopoguerra, convegni, disegni di legge, consulte
didattiche, inchieste ministeriali affrontarono la questione del
latino, finché prevalse la «tesi abolizionista» grazie alla forza
retorica dei riformatori, che con «un'enfasi sconfinante nel fanatismo»
ebbero buon gioco ricordando soprattutto i trascorsi fascisti della
lingua imperiale.
Ai difensori non restava che esprimere tutto il loro «disorientamento»
di fronte a quei «pedagoghi cattolici ispirati al pragmatismo americano
e ad un attardato russovismo e accademici di sinistra». I quali
«fondavano la loro opzione su un voluto equivoco semantico:
confondevano infatti insegnamento del latino con insegnamento
grammaticale del latino». Fu, come sottolinea Rossi, un «successo solo
politico e di facciata».
Ma stanno proprio così le cose? E, in caso contrario, di chi è la vera
responsabilità della scomparsa del latino? Infine, non sarà a sua volta
un eccesso di enfasi, quello di Rossi? Risponde Cesare Segre, secondo
il quale l'«apologia» di Rossi è ampiamente condivisibile: «A parte il
fatto che il latino è una lingua bellissima, bisogna ricordarsi che
tutto sommato noi parliamo ancora latino, un latino rinnovato, certo,
ma pur sempre latino. Il latino è il connettivo tra le lingue romanze
ed è quindi utilissimo per la comprensione. Non a caso ci fu chi
propose di usarlo come lingua universale al posto dell'esperanto».
Invece, ormai, il futuro è tutto dalla parte dell'inglese: «Sarà
l'inglese la nostra seconda lingua: è una soluzione indubbiamente più
pratica. Però, non dimentichiamo che il latino rimane una lingua di
cultura indispensabile. Entrando in una Chiesa, in qualunue parte del
mondo, il latino era una lingua che ti faceva sentire a casa: ora, con
i riti regionalizzati o provincializzati, manca un rito universale, al
massimo si può seguire la messa attraverso i gesti del celebrante. La
Chiesa è corresponsabile del declino del latino: abolendolo dalla
liturgia, ha cancellato quella nobiltà del rito che era percepibile
anche da un laico. Le preghiere in italiano, poi, sono a dir poco
orribili». Quanto agli schieramenti politici che si sono formati
attorno alla questione del latino nelle scuole, Segre taglia corto:
«Semplicemente la sinistra considerava il latino la lingua
dell'aristocrazia, convinta che svigorire il latino era un modo per
rendere tutti uguali. Certo, abolendo il latino tutti diventavano
uguali, ma sul piano dell'ignoranza».
E' anche vero, come ricorda Edoardo Sanguineti, che ha pesato sul
latino il rilancio fascista: «Penso che ci fu, in età fascista, un
culto molto artificioso fondato sull'idea di romanità e sulla retorica
del ritorno all'impero. Da lì sono derivate tutte le fanfaluche di chi
riteneva indispensabile la conoscenza del latino per il nostro modo di
pensare e per la nostra struttura logica: era questa l'impostazione su
cui si reggeva la cultura dei figli della Lupa. Un'iperbole. Ma
prescindendo dalle questioni politiche, il fatto che il latino sia
stato abbandonato dalla Chiesa gli ha inferto un altro colpo mortale
poiché attraverso la liturgia manteneva ancora una sua vitalità d'uso
nella società. Certo, per i credenti si trattava di una lingua magica
che non comunicava niente». Anche il laicissimo Sanguineti era
contrario all'abolizione del latino nella liturgia? «Per carità, ho
persino partecipato, giovanissimo, alla traduzione dei Salmi. Mi pareva
un lavoro utile, e ancora oggi ritengo indispensabile che chi prega
sappia esattamente che cosa dice, pregando. Da laico, penso che
depurare la liturgia dal trattamento magico-cabbalistico dovuto al
latino sia una buona idea». E a scuola? E' giusto restaurare
l'insegnamento del latino? Non proprio, secondo Sanguineti. La
questione è come insegnarlo. Per cui le osservazioni di Rossi non
sembrano piacere molto al poeta della neoavanguardia: «Intanto è
assurdo trattare il latino come se fosse una lingua viva. E poi, non
esageriamo: è utile per certe direzioni di studio, non per altre.
Inoltre, va mantenuto come insegnamento purché si adottino forme meno
approfondite e più sobrie rispetto al passato. Serve soprattutto come
rete di informazioni fondamentali e come esperienza di lettura.
Alleggerirei di molto lo studio della grammatica: le perifrastiche le
lascerei agli studiosi. Insegnate agli studenti, secondo me sarebbero
perseguibili come atti osceni in luogo pubblico. E poi, la traduzione
dall'italiano al latino va bandita: per chi si interessa di
crittogrammi c'è già la Settimana enigmistica...».
No, non ci siamo proprio. Per Rossi la versione italiano-latino va
difesa con i denti: «La competenza attiva - scrive -, cioè
l'addestramento ad usare la lingua, è la via più breve per conseguire
una buona comprensione dei testi, come ben sa la generazione di chi a
scuola traduceva dall'italiano in latino». Macché. Per Sanguineti, le
lacune sono altre. Culturali. Per esempio: «Di solito si insegna solo
il latino classico e amen. E' grave che mille anni di latinità, quella
medievale, spariscano nel nulla: invece, sarebbe importante dare l'idea
del nostro collegamento con l'antichità indagando anche il Medioevo
latino. Solo così si può comprendere il senso di una tradizione che
attraverso fratture terribili e difficili ricuciture arriva fino a noi.
Studiando solo il latino di Cicerone non si capisce una sola pagina
della Bibbia!». E c'è un'altra proposta lanciata da Rossi come una
boutade che non va tanto a genio a Sanguineti: l'inno europeo in lingua
latina. Perché? «Perché sarebbe inutile suscitare il rancore dei Goti o
dei Visigoti. Europa non è in sé latinità».
Nessuna responsabilità politica, per Carlo Bo, nel delitto consumato
contro il latino. E per quanto riguarda la Chiesa? «Mi sembra giusto
che abbia tentato di rendere intellegibile e più diretta la parola di
Dio ai fedeli». E il latino lingua d'uso rivendicato da Rossi? «Non
sono d'accordo, il latino, pur essendo una lingua formativa per la
nostra civiltà, resterà sempre una lingua d'élite».