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Corriere della Sera
Domenica, 22 Novembre 1996
Cultura

 

LINGUE E' stata giusta l'abolizione nella scuola media e nella liturgia? A

destra si parlò di «delitto cattocomunista». La rivista «MicroMega» riapre la

discussione

 

Sinistra pentita. Torniamo al LATINO

di PAOLO DI STEFANO

 

Carlo Bo: «Un declino che non va addebitato alla politica»

Cesare Segre: «Tutti uguali ma sul piano dell'ignoranza»

Edoardo Sanguineti: «Chi prega deve sapere cosa dice»

 

 

Chi ha ucciso il latino? Semplice, il delitto è stato consumato da un

complotto cattocomunista. Così, almeno, la pensavano un tempo i

difensori della lingua di Cicerone. Sì, perché a ben guardare, a far

fuori il latino sono stati innanzitutto i riformatori di sinistra che

sin dal dopoguerra hanno fatto dell'abolizione del latino nelle scuole

medie un vero e proprio simbolo ideologico, quasi che rinunciando al

latino si desse una picconata alla scuola di classe. Battaglia vinta,

in nome della popolarità se non del populismo. E proprio mentre il

parlamento italiano rinnovava (si fa per dire) la scuola media, la

Chiesa cattolica celebrava il secondo Concilio vaticano da cui emergeva

l'esigenza «pastorale» di aprire la liturgia ad altre lingue.

 

A ricordarci ora quella doppia spinta ai danni della lingua latina è

Giancarlo Rossi, architetto per professione, ma soprattutto («per

intervalla insaniae», come dice lui stesso) convinto assertore

dell'utilità di conoscere la cultura antica e redattore della rivista

«Latinitas» oltre che frequentatore assiduo del circolo milanese

«Sodalitas latina». Ed è curioso che sia proprio un periodico di

sinistra a farsi portavoce di questa appassionata difesa della lingua

degli avi: l'articolo di Rossi, che si presenta come una appassionata e

«argomentata difesa dell'importanza e dell'attualità della lingua che

ha formato la nostra civiltà», apparirà sul prossimo numero di

«MicroMega». Il latino, secondo Rossi, è stato un palese «segno di

contraddizione» nella nostra società. Innanzitutto per la scuola: per

un quindicennio, nel dopoguerra, convegni, disegni di legge, consulte

didattiche, inchieste ministeriali affrontarono la questione del

latino, finché prevalse la «tesi abolizionista» grazie alla forza

retorica dei riformatori, che con «un'enfasi sconfinante nel fanatismo»

ebbero buon gioco ricordando soprattutto i trascorsi fascisti della

lingua imperiale.

 

Ai difensori non restava che esprimere tutto il loro «disorientamento»

di fronte a quei «pedagoghi cattolici ispirati al pragmatismo americano

e ad un attardato russovismo e accademici di sinistra». I quali

«fondavano la loro opzione su un voluto equivoco semantico:

confondevano infatti insegnamento del latino con insegnamento

grammaticale del latino». Fu, come sottolinea Rossi, un «successo solo

politico e di facciata».

 

Ma stanno proprio così le cose? E, in caso contrario, di chi è la vera

responsabilità della scomparsa del latino? Infine, non sarà a sua volta

un eccesso di enfasi, quello di Rossi? Risponde Cesare Segre, secondo

il quale l'«apologia» di Rossi è ampiamente condivisibile: «A parte il

fatto che il latino è una lingua bellissima, bisogna ricordarsi che

tutto sommato noi parliamo ancora latino, un latino rinnovato, certo,

ma pur sempre latino. Il latino è il connettivo tra le lingue romanze

ed è quindi utilissimo per la comprensione. Non a caso ci fu chi

propose di usarlo come lingua universale al posto dell'esperanto».

Invece, ormai, il futuro è tutto dalla parte dell'inglese: «Sarà

l'inglese la nostra seconda lingua: è una soluzione indubbiamente più

pratica. Però, non dimentichiamo che il latino rimane una lingua di

cultura indispensabile. Entrando in una Chiesa, in qualunue parte del

mondo, il latino era una lingua che ti faceva sentire a casa: ora, con

i riti regionalizzati o provincializzati, manca un rito universale, al

massimo si può seguire la messa attraverso i gesti del celebrante. La

Chiesa è corresponsabile del declino del latino: abolendolo dalla

liturgia, ha cancellato quella nobiltà del rito che era percepibile

anche da un laico. Le preghiere in italiano, poi, sono a dir poco

orribili». Quanto agli schieramenti politici che si sono formati

attorno alla questione del latino nelle scuole, Segre taglia corto:

«Semplicemente la sinistra considerava il latino la lingua

dell'aristocrazia, convinta che svigorire il latino era un modo per

rendere tutti uguali. Certo, abolendo il latino tutti diventavano

uguali, ma sul piano dell'ignoranza».

 

E' anche vero, come ricorda Edoardo Sanguineti, che ha pesato sul

latino il rilancio fascista: «Penso che ci fu, in età fascista, un

culto molto artificioso fondato sull'idea di romanità e sulla retorica

del ritorno all'impero. Da lì sono derivate tutte le fanfaluche di chi

riteneva indispensabile la conoscenza del latino per il nostro modo di

pensare e per la nostra struttura logica: era questa l'impostazione su

cui si reggeva la cultura dei figli della Lupa. Un'iperbole. Ma

prescindendo dalle questioni politiche, il fatto che il latino sia

stato abbandonato dalla Chiesa gli ha inferto un altro colpo mortale

poiché attraverso la liturgia manteneva ancora una sua vitalità d'uso

nella società. Certo, per i credenti si trattava di una lingua magica

che non comunicava niente». Anche il laicissimo Sanguineti era

contrario all'abolizione del latino nella liturgia? «Per carità, ho

persino partecipato, giovanissimo, alla traduzione dei Salmi. Mi pareva

un lavoro utile, e ancora oggi ritengo indispensabile che chi prega

sappia esattamente che cosa dice, pregando. Da laico, penso che

depurare la liturgia dal trattamento magico-cabbalistico dovuto al

latino sia una buona idea». E a scuola? E' giusto restaurare

l'insegnamento del latino? Non proprio, secondo Sanguineti. La

questione è come insegnarlo. Per cui le osservazioni di Rossi non

sembrano piacere molto al poeta della neoavanguardia: «Intanto è

assurdo trattare il latino come se fosse una lingua viva. E poi, non

esageriamo: è utile per certe direzioni di studio, non per altre.

Inoltre, va mantenuto come insegnamento purché si adottino forme meno

approfondite e più sobrie rispetto al passato. Serve soprattutto come

rete di informazioni fondamentali e come esperienza di lettura.

Alleggerirei di molto lo studio della grammatica: le perifrastiche le

lascerei agli studiosi. Insegnate agli studenti, secondo me sarebbero

perseguibili come atti osceni in luogo pubblico. E poi, la traduzione

dall'italiano al latino va bandita: per chi si interessa di

crittogrammi c'è già la Settimana enigmistica...».

 

No, non ci siamo proprio. Per Rossi la versione italiano-latino va

difesa con i denti: «La competenza attiva - scrive -, cioè

l'addestramento ad usare la lingua, è la via più breve per conseguire

una buona comprensione dei testi, come ben sa la generazione di chi a

scuola traduceva dall'italiano in latino». Macché. Per Sanguineti, le

lacune sono altre. Culturali. Per esempio: «Di solito si insegna solo

il latino classico e amen. E' grave che mille anni di latinità, quella

medievale, spariscano nel nulla: invece, sarebbe importante dare l'idea

del nostro collegamento con l'antichità indagando anche il Medioevo

latino. Solo così si può comprendere il senso di una tradizione che

attraverso fratture terribili e difficili ricuciture arriva fino a noi.

Studiando solo il latino di Cicerone non si capisce una sola pagina

della Bibbia!». E c'è un'altra proposta lanciata da Rossi come una

boutade che non va tanto a genio a Sanguineti: l'inno europeo in lingua

latina. Perché? «Perché sarebbe inutile suscitare il rancore dei Goti o

dei Visigoti. Europa non è in sé latinità».

 

Nessuna responsabilità politica, per Carlo Bo, nel delitto consumato

contro il latino. E per quanto riguarda la Chiesa? «Mi sembra giusto

che abbia tentato di rendere intellegibile e più diretta la parola di

Dio ai fedeli». E il latino lingua d'uso rivendicato da Rossi? «Non

sono d'accordo, il latino, pur essendo una lingua formativa per la

nostra civiltà, resterà sempre una lingua d'élite».