di BEPPE SEVERGNINI
Recentemente, in qualità di corrispondente italiano dell'Economist, mi
è capitato d'accompagnare in un giro d'interviste il collega venuto da
Londra. In 48 ore abbiamo incontrato un primo ministro, quattro ex
primi ministri, un uomo che non disdegnerebbe d'essere primo ministro,
e un personaggio che, se avesse uno staterello tutto suo, assumerebbe
una carica equivalente a primo ministro. I personaggi in questione sono
Romano Prodi, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini,
Silvio Berlusconi, Massimo D'Alema e Umberto Bossi. Quello che hanno
detto è interessante, ed è apparso sull'Economist. Altrettanto
interessante è come lo hanno detto. C'è chi ha parlato inglese (bene,
molto bene, benino); chi ha parlato italiese (l'equivalente linguistico
della stracciatella: italiano con frammenti d'inglese); chi ha parlato
italiano, nonostante capisse; e chi ha parlato inglese, rischiando di
non farsi capire. L'ospite britannico è rimasto comunque impressionato:
l'Italia parlava (più o meno) la sua lingua; mentre lui non parlava la
lingua dell'Italia.
Umberto Bossi, per esempio, ha parlato italiese: un italiano condito di
occhiate, gesti e occasionali «OK». Bossi - per l'occasione mansueto
(giorni prima aveva cacciato una giornalista canadese che pretendeva di
usare l'interprete) - ha mostrato di conoscere diversi vocaboli
(independence, north, freedom, self-determination) e ha imbastito
piccole frasi. Quando, ad esempio, il Braveheart padano ha deciso di
mostrare all'ospite britannico il missile posto nel seminterrato -
dipinto su tela: un caso innocuo di secessione artistica - ha detto:
«Come to see the rocket!». L'ospite ha capito, e lo ha seguito con
entusiasmo lungo per le scale. Nei colloqui al Foreign Office, ha
lasciato capire, queste cose non succedono.
Meno esotica, ma non meno interessante, la lingua di Romano Prodi. Il
collega britannico sostiene che l'inglese del presidente del Consiglio
gli ricorda quello di Gianni De Michelis: categoria «entusiasti».
Ambedue si buttano, ma mentre l'ex ministro degli Esteri sparava
agghiaccianti «at the limit» (sua personale traduzione di «al limite»),
l'attuale presidente del Consiglio l'inglese non lo inventa: lo sa. Se,
talvolta, l'inglese prodiano appare artigianale, è dovuto all'accento.
Prodi non somiglia a quegli italiani che tentano raccapriccianti
imitazioni dell'accento britannico (o americano). L'uomo di Palazzo
Chigi trasferisce invece l'intero repertorio vocale - vocali emiliane,
sbuffi e sospiri - nella lingua di Tony Blair. L'effetto è curioso, ma
comprensibile.
Per Lamberto Dini il discorso è diverso. Il ministro degli Esteri,
l'inglese, lo sa bene: gli anni a Washington non sono trascorsi invano.
Lo sa meglio di Ciampi - che abbiamo incrociato in un salone di Palazzo
Chigi - ma peggio di Giuliano Amato, che è convinto di saperlo
benissimo. L'inglese di Amato è idiomatico, ieratico, mediatico,
acrobatico; qualche volta, parlando, l'uomo si arrampica sulla
poltrona, da dove fissa il mondo di sotto, nel caso osasse
interrompere. In inglese, Amato può affrontare qualsiasi argomento
(dalla teoria del caos alla prospettiva del governo), meno uno: il
futuro politico di Giuliano Amato. Ma qui, più che l'inglese, fa
difetto la volontà.
Siamo a Silvio Berlusconi e a Massimo D'Alema. Oltre alla buona
riuscita della Bicamerale, i due avversari hanno dichiarato d'avere un
secondo obiettivo comune: imparare l'inglese. La differenza è questa.
Berlusconi, in attesa di impararlo, lo parla, con veemenza poco
anglosassone. D'Alema, invece, aspetta di saperlo, con cautela poco
italiana. Durante il nostro incontro, il presidente della Bicamerale
non ha proferito parola inglese (neppure good-bye), sebbene mostrasse
di capire le domande prima che fossero tradotte. Ho dovuto perciò
assumere il ruolo di interprete, rinunciando a quello di giornalista.
Per questo, forse, D'Alema mi ha trattato tanto bene.