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Corriere della Sera
Mercoledì, 14 maggio 1997
In primo piano

 

LINGUAGGIO & POLITICA

 

L'inglese e l'italiese dei nostri rappresentanti

 

di BEPPE SEVERGNINI

 

Recentemente, in qualità di corrispondente italiano dell'Economist, mi

è capitato d'accompagnare in un giro d'interviste il collega venuto da

Londra. In 48 ore abbiamo incontrato un primo ministro, quattro ex

primi ministri, un uomo che non disdegnerebbe d'essere primo ministro,

e un personaggio che, se avesse uno staterello tutto suo, assumerebbe

una carica equivalente a primo ministro. I personaggi in questione sono

Romano Prodi, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini,

Silvio Berlusconi, Massimo D'Alema e Umberto Bossi. Quello che hanno

detto è interessante, ed è apparso sull'Economist. Altrettanto

interessante è come lo hanno detto. C'è chi ha parlato inglese (bene,

molto bene, benino); chi ha parlato italiese (l'equivalente linguistico

della stracciatella: italiano con frammenti d'inglese); chi ha parlato

italiano, nonostante capisse; e chi ha parlato inglese, rischiando di

non farsi capire. L'ospite britannico è rimasto comunque impressionato:

l'Italia parlava (più o meno) la sua lingua; mentre lui non parlava la

lingua dell'Italia.

 

Umberto Bossi, per esempio, ha parlato italiese: un italiano condito di

occhiate, gesti e occasionali «OK». Bossi - per l'occasione mansueto

(giorni prima aveva cacciato una giornalista canadese che pretendeva di

usare l'interprete) - ha mostrato di conoscere diversi vocaboli

(independence, north, freedom, self-determination) e ha imbastito

piccole frasi. Quando, ad esempio, il Braveheart padano ha deciso di

mostrare all'ospite britannico il missile posto nel seminterrato -

dipinto su tela: un caso innocuo di secessione artistica - ha detto:

«Come to see the rocket!». L'ospite ha capito, e lo ha seguito con

entusiasmo lungo per le scale. Nei colloqui al Foreign Office, ha

lasciato capire, queste cose non succedono.

 

Meno esotica, ma non meno interessante, la lingua di Romano Prodi. Il

collega britannico sostiene che l'inglese del presidente del Consiglio

gli ricorda quello di Gianni De Michelis: categoria «entusiasti».

Ambedue si buttano, ma mentre l'ex ministro degli Esteri sparava

agghiaccianti «at the limit» (sua personale traduzione di «al limite»),

l'attuale presidente del Consiglio l'inglese non lo inventa: lo sa. Se,

talvolta, l'inglese prodiano appare artigianale, è dovuto all'accento.

Prodi non somiglia a quegli italiani che tentano raccapriccianti

imitazioni dell'accento britannico (o americano). L'uomo di Palazzo

Chigi trasferisce invece l'intero repertorio vocale - vocali emiliane,

sbuffi e sospiri - nella lingua di Tony Blair. L'effetto è curioso, ma

comprensibile.

 

Per Lamberto Dini il discorso è diverso. Il ministro degli Esteri,

l'inglese, lo sa bene: gli anni a Washington non sono trascorsi invano.

Lo sa meglio di Ciampi - che abbiamo incrociato in un salone di Palazzo

Chigi - ma peggio di Giuliano Amato, che è convinto di saperlo

benissimo. L'inglese di Amato è idiomatico, ieratico, mediatico,

acrobatico; qualche volta, parlando, l'uomo si arrampica sulla

poltrona, da dove fissa il mondo di sotto, nel caso osasse

interrompere. In inglese, Amato può affrontare qualsiasi argomento

(dalla teoria del caos alla prospettiva del governo), meno uno: il

futuro politico di Giuliano Amato. Ma qui, più che l'inglese, fa

difetto la volontà.

 

Siamo a Silvio Berlusconi e a Massimo D'Alema. Oltre alla buona

riuscita della Bicamerale, i due avversari hanno dichiarato d'avere un

secondo obiettivo comune: imparare l'inglese. La differenza è questa.

Berlusconi, in attesa di impararlo, lo parla, con veemenza poco

anglosassone. D'Alema, invece, aspetta di saperlo, con cautela poco

italiana. Durante il nostro incontro, il presidente della Bicamerale

non ha proferito parola inglese (neppure good-bye), sebbene mostrasse

di capire le domande prima che fossero tradotte. Ho dovuto perciò

assumere il ruolo di interprete, rinunciando a quello di giornalista.

Per questo, forse, D'Alema mi ha trattato tanto bene.