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Corriere della Sera
Domenica, 26 Gennaio 1997
Scienze

 

Polemica su uno studio pubblicato da «Science»

 

Basi innate e specializzate all'origine del linguaggio

 

di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI

 

Ringraziando per l'ospitalità qui gentilmente concessami, vorrei

commentare per sommi capi un articolo apparso sul Corriere Scienza di

domenica 19 gennaio. Quell'articolo partiva dai risultati di un

esperimento sui bimbi di otto mesi, pubblicati su Science il 13

dicembre scorso da Jenny Saffran, Richard Aslin ed Elissa Newport

dell'Università di Rochester. Non si trattava di «capire il significato

delle parole», come il titolo dell'articolo del Corriere suggeriva, ma

di quello, non meno formidabile, di capire dove inizia e dove finisce

una parola. Ovviamente questo compito deve essere portato a termine dal

bimbo prima di poter capire cosa significano le parole.

 

Come ogni psicolinguista ben sa, il compito è davvero formidabile, in

quanto il flusso del parlato non marca con delle pause la fine e

l'inizio delle parole. Eppure, questo compito qualsiasi bimbo riesce a

portarlo a termine senza sforzo, al massimo, dico al massimo, entro i

primi tre anni di vita.

 

Varie sono le strategie efficacemente, ma del tutto inconsapevolmente,

messe in atto dal bimbo. Alcune sono assai precoci, addirittura attive

fin dalle primissime settimane dopo la nascita; per esempio, per quanto

riguarda l'identificazione delle sillabe. Altre vengono messe in atto

nei mesi successivi e si concentrano, ad esempio, sull'alternanza

tipica, in quella lingua, di sillabe accentate e non accentate. In

alcune lingue, la sequenza tipica di una parola sarà del tipo «tàta»

(come in inglese «prétty» «bàby»), mentre in altre sarà del tipo «tatà»

(come in francese «jolì» «bebé»). Ma non basta.

 

Strategie diverse e combinate

 

Altre strategie, oltre a questa, devono essere messe in atto e

combinate tra loro, come Noam Chomsky aveva preconizzato fino dalla

fine degli anni Cinquanta. E' verosimile che, tra queste, vi siano anche

strategie basate sulle alte frequenze con le quali certe sillabe si

susseguono nella stessa parola. Per esempio, in italiano, la sillaba

«bim..» è assai probabile che sia seguita da «..bo» e la sillaba

«bel..» è assai probabile che sia seguita da «..lo», mentre la sequenza

«bobel» è assai poco probabile. Quindi il bimbo italiano estrarrà dalla

sequenza acustica continua «bimbobello» le parole, appunto, «bimbo»

«bello» e non «bim» «bobel» «lo».

 

Detto molto semplicemente, i dati appena pubblicati su Science sembrano

confermare che già i bambini di otto mesi, in effetti, mettono in atto

una strategia di questo tipo, rendendo giustizia alla vecchia ipotesi

di Chomsky. Irrita molto leggere in un commento apparso su Science

stessa, e ripreso dal Corriere, che questi dati «sconfessino» le teorie

di Chomsky, quando invece sono la conferma di una sua congettura di

oltre quarant'anni fa. E' interessante, e preoccupante, constatare che

nel ricorrente dibattito sull'innato e l'appreso, adesso riattizzato da

Science, riaffiori sempre una spontanea tendenza a privilegiare la

parte dell'appreso.

 

Gli studiosi di Rochester dicevano a chiare lettere che potrebbe

benissimo trattarsi di «meccanismi di apprendimento statistico innati»,

piuttosto che di «conoscenze innate». I due commentatori (Elisabeth

Bates e Jeffrey Elman), nello stesso numero di Science, rincarano la

dose, pur essendo espliciti nel mettere in guardia contro «un ritorno

alle teorie della tabula rasa». Non esitano, però, a liquidare d'un sol

colpo quarant'anni di conferme che vi sono molteplici componenti

linguistiche innate e specifiche.

 

Calcoli probabilistici

 

I dati alla fonte non intaccano, comunque, le ipotesi fortemente

innatiste (e anti-probabiliste) nel settore della sintassi, il più

intensamente esplorato da Chomsky. Quindi, se i bimbi di otto mesi sono

capaci di fare istintivamente dei calcoli probabilistici sulle sequenze

di sillabe, ebbene, questa può ben essere una capacità non solo innata

(come Newport e colleghi suggeriscono) ma anche altamente specializzata

per il linguaggio. Infine, l'articolo del Corriere Scienza, riprendeva

in chiusura una vecchissima ipotesi, cioè che non sarebbe stato lo

sviluppo del cervello a permettere all'uomo di parlare, ma la comparsa

del linguaggio a spostare «la spinta selettiva a favore di coloro che

possedevano un cervello capace di comprendere e costruire un

linguaggio». Qui si esula dagli articoli di Science. Nell'opinione di

chi scrive, corroborata da quelle ben più autorevoli di Noam Chomsky,

degli evoluzionisti Stephen J. Gould e Richard Lewontin e dei genetisti

molecolari che studiano lo sviluppo della corteccia cerebrale, niente

di ciò che sappiamo rende oggi minimamente plausibile questa ipotesi

adattazionista dal sapore vetero-darwiniano.