di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI
Ringraziando per l'ospitalità qui gentilmente concessami, vorrei
commentare per sommi capi un articolo apparso sul Corriere Scienza di
domenica 19 gennaio. Quell'articolo partiva dai risultati di un
esperimento sui bimbi di otto mesi, pubblicati su Science il 13
dicembre scorso da Jenny Saffran, Richard Aslin ed Elissa Newport
dell'Università di Rochester. Non si trattava di «capire il significato
delle parole», come il titolo dell'articolo del Corriere suggeriva, ma
di quello, non meno formidabile, di capire dove inizia e dove finisce
una parola. Ovviamente questo compito deve essere portato a termine dal
bimbo prima di poter capire cosa significano le parole.
Come ogni psicolinguista ben sa, il compito è davvero formidabile, in
quanto il flusso del parlato non marca con delle pause la fine e
l'inizio delle parole. Eppure, questo compito qualsiasi bimbo riesce a
portarlo a termine senza sforzo, al massimo, dico al massimo, entro i
primi tre anni di vita.
Varie sono le strategie efficacemente, ma del tutto inconsapevolmente,
messe in atto dal bimbo. Alcune sono assai precoci, addirittura attive
fin dalle primissime settimane dopo la nascita; per esempio, per quanto
riguarda l'identificazione delle sillabe. Altre vengono messe in atto
nei mesi successivi e si concentrano, ad esempio, sull'alternanza
tipica, in quella lingua, di sillabe accentate e non accentate. In
alcune lingue, la sequenza tipica di una parola sarà del tipo «tàta»
(come in inglese «prétty» «bàby»), mentre in altre sarà del tipo «tatà»
(come in francese «jolì» «bebé»). Ma non basta.
Strategie diverse e combinate
Altre strategie, oltre a questa, devono essere messe in atto e
combinate tra loro, come Noam Chomsky aveva preconizzato fino dalla
fine degli anni Cinquanta. E' verosimile che, tra queste, vi siano anche
strategie basate sulle alte frequenze con le quali certe sillabe si
susseguono nella stessa parola. Per esempio, in italiano, la sillaba
«bim..» è assai probabile che sia seguita da «..bo» e la sillaba
«bel..» è assai probabile che sia seguita da «..lo», mentre la sequenza
«bobel» è assai poco probabile. Quindi il bimbo italiano estrarrà dalla
sequenza acustica continua «bimbobello» le parole, appunto, «bimbo»
«bello» e non «bim» «bobel» «lo».
Detto molto semplicemente, i dati appena pubblicati su Science sembrano
confermare che già i bambini di otto mesi, in effetti, mettono in atto
una strategia di questo tipo, rendendo giustizia alla vecchia ipotesi
di Chomsky. Irrita molto leggere in un commento apparso su Science
stessa, e ripreso dal Corriere, che questi dati «sconfessino» le teorie
di Chomsky, quando invece sono la conferma di una sua congettura di
oltre quarant'anni fa. E' interessante, e preoccupante, constatare che
nel ricorrente dibattito sull'innato e l'appreso, adesso riattizzato da
Science, riaffiori sempre una spontanea tendenza a privilegiare la
parte dell'appreso.
Gli studiosi di Rochester dicevano a chiare lettere che potrebbe
benissimo trattarsi di «meccanismi di apprendimento statistico innati»,
piuttosto che di «conoscenze innate». I due commentatori (Elisabeth
Bates e Jeffrey Elman), nello stesso numero di Science, rincarano la
dose, pur essendo espliciti nel mettere in guardia contro «un ritorno
alle teorie della tabula rasa». Non esitano, però, a liquidare d'un sol
colpo quarant'anni di conferme che vi sono molteplici componenti
linguistiche innate e specifiche.
Calcoli probabilistici
I dati alla fonte non intaccano, comunque, le ipotesi fortemente
innatiste (e anti-probabiliste) nel settore della sintassi, il più
intensamente esplorato da Chomsky. Quindi, se i bimbi di otto mesi sono
capaci di fare istintivamente dei calcoli probabilistici sulle sequenze
di sillabe, ebbene, questa può ben essere una capacità non solo innata
(come Newport e colleghi suggeriscono) ma anche altamente specializzata
per il linguaggio. Infine, l'articolo del Corriere Scienza, riprendeva
in chiusura una vecchissima ipotesi, cioè che non sarebbe stato lo
sviluppo del cervello a permettere all'uomo di parlare, ma la comparsa
del linguaggio a spostare «la spinta selettiva a favore di coloro che
possedevano un cervello capace di comprendere e costruire un
linguaggio». Qui si esula dagli articoli di Science. Nell'opinione di
chi scrive, corroborata da quelle ben più autorevoli di Noam Chomsky,
degli evoluzionisti Stephen J. Gould e Richard Lewontin e dei genetisti
molecolari che studiano lo sviluppo della corteccia cerebrale, niente
di ciò che sappiamo rende oggi minimamente plausibile questa ipotesi
adattazionista dal sapore vetero-darwiniano.