di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI
Il Premio Nobel americano James Watson, scopritore, con Francis Crick,
della struttura del DNA, iniziava la sua celeberrima autobiografia La
doppia elica con la frase: «Non ho mai visto Francis in vena di
modestia». Un attacco narrativo molto simile è quello dello psicologo
Steven Pinker nel suo bestseller divulgativo, appena tradotto in
italiano (L'istinto del linguaggio, edito da Mondadori): «Non ho mai
conosciuto una persona che non fosse interessata al linguaggio». Poi
astutamente aggiunge: «Ho scritto questo libro per soddisfare tale
curiosità». E bisogna dire che ci è pienamente riuscito, battendo, in
questo, perfino il suo maestro e mentore, l'eroe della filigrana di
tutto questo libro, cioè Noam Chomsky. Ho incontrato negli Stati Uniti
e in Europa professionisti colti, illustri scienziati e agguerriti
filosofi, fino ad ora rimasti agnostici, o perfino un po' scettici,
sulle ragioni e i contenuti della cosiddetta «svolta chomskiana»,
conquistati dal libro di Pinker. Lo stesso Chomsky è rimasto
piacevolmente stupito dal successo de L'istinto del linguaggio anche in
ambienti rimasti, fino ad oggi, poco ricettivi.
Per chi ha la fortuna di ben conoscerlo personalmente, la spiegazione è
ovvia: Steve possiede una chiarezza espositiva senza pari e ha la
capacità di rendere accessibili e vibranti anche i contenuti più ardui
della sua professione. Giovane, ma non più giovanissimo, ha conservato
tratti quasi adolescenziali, una folta chioma di riccioli, lo charme di
uno sguardo insieme penetrante e cordiale. Arriva al suo ufficio di
Direttore del Centro per le Neuroscienze Cognitive del Mit con tanto di
caschetto, pantaloni da ciclista, guanti traforati e, mentre ancora sta
mettendo l'antifurto alla sua super-leggera nel cortile, e si avvia per
i corridoi dell'istituto con la speciale falcata che impongono gli
scarponcelli da bici, già è prodigo di saggi consigli a uno studente o
a una laureanda. Si conquistano così gli studenti, ma certo non decine
e decine di migliaia di lettori.
Il suo vero segreto, a mio parere, è quello di aver trasformato in un
pallone aerostatico ascendente qualcosa che fino ad oggi aveva, invece,
costantemente pesato sulla disciplina, cioè proprio quell'universale e
possente interesse generico per i fatti linguistici dal quale il libro
prende avvio. La linguistica scientifica moderna, infatti, deve
costantemente lottare contro questo eccesso di fascino. Mentre nessuno
che sia digiuno di biologia suppone di saperne di DNA, o di virus, o di
replicazione cellulare, tutti pensano di saperne abbastanza sul
linguaggio. Chi scrive di linguistica per un largo pubblico non incide
su una tabula rasa. Tutt'altro. Bisognerebbe, idealmente, prima
cancellare i preconcetti depositati dalle nostre intuizioni spontanee,
poi scrivervi sopra quanto si è faticosamente andanto scoprendo negli
ultimi decenni.
Il guaio è che, sulle tavolette della nostra mente, non si può
procedere così. Come ci insegnò a suo tempo Francesco Bacone, occorre
prima incidere il nuovo, per poter poi cancellare il vecchio. E questo
è proprio ciò che fa Pinker, partendo da Darwin, all'alba della specie,
passando per il «farfugliare» degli indigeni nelle profondità della
Nuova Guinea, poi mettendo a fuoco lo slang degli adolescenti di colore
di Harlem, per confutare l'idea che quel tipo di lingue «degenerate»
non abbiano una sintassi. Fatto questo, passiamo a una lingua creola
nel Sud del Pacifico, spontaneamente creata quando dei bimbi, oggi
vecchietti, arricchirono per istinto, con elementi basilari da loro
inventati, il pidgin dei loro genitori.
Un pidgin è un coacervo di parole prese in prestito da diverse lingue.
Serve solo a vendere e comprare, e a impartire ordini a schiavi, o a
milizie raccogliticce. Discendenti da schiavi di ogni colore e lingua
che erano stati per forza radunati e risultarono accomunati solo da
tale linguaggio scarno e improvvisato, quei bimbi avevano
spontaneamente introdotto, creandoli di sana pianta, gli articoli (come
i nostri «il», «un»), i tempi dei verbi, gli ausiliari (come i nostri
«ho», «era» ecc.) e varie altre strutture sintattiche, proprio come
quelle delle lingue «vere». La specialissima, babelica situazione di
quelle sventurate popolazioni di schiavi ha dimostrato in modo
paradigmatico che la lingua dei figli può benissimo essere per istinto
grammaticalmente assai più ricca e strutturata di quella dei loro
genitori.
Scritto questo fenomeno sulle nostre tavolette mentali, viene naturale
cancellare l'idea che i bimbi apprendano la loro lingua maderna dagli
adulti per «imitazione». Se non ci bastasse, piano piano,
efficacemente, Pinker arricchisce il quadro, e scrive sulle tavolette
della nostra mente altre idee nuove, aggiungendo a casi come quelli che
ho appena menzionato, i linguaggi gestuali dei sordi congeniti (che
hanno la stessa identica sintassi delle lingue parlate, nonostante si
manifesti per il canale del gesto), i deficit linguistici innati, come
lo SLI (Specific Language Impairment), che produce persone
dall'intelligenza perfettamente normale, ma selettivamente menomate
nelle capacità sintattiche, e (all'opposto) la sindrome di Williams,
che produce bimbi dall'intelligenza gravemente ridotta, ma dalle
capacità linguistiche sbalorditive. Ci sono poi i casi delle lesioni
cerebrali a effetto molto circoscritto, come le afasie, che, a volte,
paiono smontare le rotelle del linguaggio una ad una, lasciando le
altre intatte. La ben oliata navetta di Pinker fa la spola tra dati di
questo genere e i principi della linguistica scientifica, esposti in un
sapiente crescendo di difficoltà. Arriviamo a toccare con mano le
radici stesse del linguaggio, e quindi della nostra specie. Certi
bambini di città (in America almeno, ci dice Pinker) credono che il
latte sia direttamente prodotto dai camion che lo distribuiscono.
Per restare su questa metafora, il tipo di linguistica scientifica
coltivata da Pinker, Chomsky e molti altri non si sofferma affatto sui
problemi di distribuzione lattiera nelle grandi città, ma indaga
piuttosto i meccanismi fisiologici attraverso i quali la prolattina
induce la secrezione del latte. La sua lezione fondamentale è in
massima parte la stessa di Chomsky. Mi sembra la si possa ben
sintetizzare rifacendoci proprio alla scoperta del DNA, cioè alla
lezione di Watson e Crick.
Niente parrebbe più diverso da una libellula di un rinoceronte. Se
intendiamo fermarci a questa innegabile e lampante diversità, padroni!
Ci precluderemmo, però, la difficile, meravigliosa scoperta di ciò che
l'una e l'altro hanno in comune, quando si scende a un livello
biologico più profondo.