Prego i lettori di rispondere mentalmente a questa domanda: quante
volte, nel corso di una giornata, sentono dire (alla televisione, alla
radio, nei discorsi degli amici, negli uffici, dovunque si parli o si
discuta o si polemizzi o si racconti qualcosa...) l'espressione «tra
virgolette»? Siamo di fronte a una nuova invasione, dopo i fasti, e
soprattutto i nefasti, del cioè e dell'attimino.
Sul piano della parola scritta, le grammatiche sono precise nel
definire i compiti delle virgolette: introducono un discorso diretto o
una citazione, possono contrassegnare l'uso particolare (allusivo,
traslato, ironico) di una qualsiasi espressione, segnalano la presa di
distanza di chi scrive. Se mi è concesso un riferimento personale, ho
la tendenza a mettere le virgolette intorno a certi neologismi nei
quali mi imbatto: tra i più recenti, «rifiuteria» invece di discarica.
Sulla «Grammatica italiana» di Luca Serianni (ed. Utet, 1988), c'è un
esempio eccellente di questo effetto di distanziamento. Anni fa, il
titolo di un giornale annunciava: «In tre giorni ha rubato 37 brioches:
arrestato». Il sommario precisava: «Il titolare del locale, stufo di
vedersi "soffiare" la merce preferita dai suoi clienti del mattino, si
è appostato e lo ha colto in "flagranza di reato"». Le virgolette
qualificavano l'uso gergale del verbo «soffiare» e introducevano
un'espressione tecnica del diritto penale che aveva effetto ironico per
l'esiguità del «reato» commesso.
Ma adesso pensate se tutto questo, anziché scritto, fosse detto nel
modo che oggi si va imponendo, con la continua intermittenza del «tra
virgolette» solitamente preceduto da una breve e calcolata pausa di
esitazione. Mercoledì notte, dopo la clamorosa vittoria dell'Inter
sulla Juventus in coppa Italia, ho sentito un commentatore televisivo
che osservava: «Per la Juve è stata, tra virgolette, una Caporetto».
Banalissimi luoghi comuni (come, appunto, il raffronto con Caporetto),
logore metafore, frasi scontatissime godono di questo intercalare che
sembra fatto apposta per dare solennità immeritata alle cose che uno va
pubblicamente dichiarando. Che fenomeno è? Un fenomeno di vanità, come
se uno citasse se stesso invece di un grande nome della letteratura o
della filosofia o della storia? Oppure è una furba scappatoia per non
prendere decisamente posizione, per affidare al «tra virgolette» una
specie di scarico di responsabilità per paura di offendere o di
suscitare risentimenti? Via, siamo seri, non facciamo, tra virgolette,
la parte dello struzzo che nasconde la testa...