UN OTTIMISMO

GIUSTIFICATO

 

 

Camilla Bettoni, adesso Professore di Didattica delle Lingue Straniere Moderne all’Università di Verona, ha insegnato in Australia per 17 anni Lingua e Linguistica Italiane, prima alla James Cook University of North Queensland, e poi alla University of Sydney, occupandosi delle sorti dell’italiano, di come venga anglicizzato e abbandonato nel contatto con l’inglese, ma anche insegnato e imparato a scuola. 

 

 

Più che le pagine dedicate da S.I.&N.A. (Anno II, N. 2) all’Australia (dopotutto l’ottimismo professionale è d’obbligo quando sono gli addetti al lavoro che scrivono), è stata la mia visita laggiù l’inverno scorso a rendermi più ottimista riguardo alle sorti dell’italiano di quanto non lo sia mai stata dal primo contatto che ho avuto con l’Australia nel 1975.  Per una volta tanto non ho prove oggettive per sostenerlo, e si tratta perciò di un sentimento personale, che tra l’altro contraddice molti dei segnali negativi che mi erano arrivati da quando avevo lasciato l’Australia 6 anni fa.  Bisogna quindi che mi spieghi.

È purtroppo vero che, nella comunità, man mano che crescono le seconde e le terze generazioni, l’italiano si parla sempre meno. Lasciano pochi dubbi le conclusioni cui siamo giunti separatamente e con strumenti diversi Antonia Rubino e io in un libro sull’Emigrazione e comportamento linguistico (Galatina, Congedo Editore, 1996), e poi Francesco Cavallaro e ancora Antonia Rubino con le loro tesi di dottorato rispettivamente della Monash University (1997) e della Sydney University (1993).  Anche Michael Clyne, con le sue puntuali analisi dei dati dei censimenti che ogni cinque anni dal 1976 includono informazioni linguistiche, conferma un ineluttabile shift verso l’inglese.

È anche purtroppo vero che, nelle scuole e nelle università, man mano che si atrofizzano i finanziamenti, l’italiano è una delle prime materie a soffrirne.  Parlano chiaro gli episodi drammatici della tentata chiusura del Dipartimento di Italiano della La Trobe University, e dell’eliminazione totale dell’italiano dalla mia vecchia università del Nord Queensland e pare anche da quella della Tasmania. Inoltre, qui su S.I.&N.A., Giuseppe Fin ammette che da 47.000 bambini che frequentavano i corsi del Co.As.It. nelle scuole elementari del New South Wales nel 1987, dieci anni dopo si è passati a 30.000, un calo del 36%.

Eppure, di contro a queste cifre, io credo che tenga la qualità, intesa in vario modo, sia nella comunità sia nello studio dell’italiano. 

Quando, dopo la politica assimilazionista e integrazionista del dopoguerra, negli anni Settanta si è affermata quella multiculturale, che incoraggiava il mantenimento delle lingue immigrate grazie al riconoscimento che esse erano un patrimonio prezioso per l’intero paese, gli italiani non si annoveravano tra i promotori più convinti e i sostenitori più entusiasti delle iniziative multiculturali.  Né poteva comportarsi diversamente una comunità profondamente divisa al suo interno dalle varie provenienze regionali e dai vari dialetti, poco abituata a identificarsi in valori nazionali e provincialmente sorpresa che altri potessero volerne imparare la lingua.  Quindi, nel suo complesso oserei dire che la comunità italiana abbia in quegli anni goduto della vittoria di una battaglia combattuta con maggiore impegno da altre comunità immigrate in Australia e da una parte illuminata di quella anglo-celtica.  Ma quella italiana era la comunità numericamente più consistente, e quella che – dopo la tedesca – aveva la lingua più insegnabile anche ai non italiani, certo più insegnabile del greco o del maltese.  E così è partito il boom dell’italiano, una vera e propria esplosione, favorita da varie circostanze, non ultima quella di una nuova immagine internazionale dell’Italia, che da povero paese di emigrazione si era gradualmente messa al passo con il resto dell’Europa moderna e industriale.  Rimaneva però, a mio avviso, nella scuola, una scollatura tra una crescita quantitativa troppo rapida e una qualità a volte incerta del prodotto offerto; e, nella società australiana, la vecchia scollatura tra l’immagine elitaria dell’Italia del Rinascimento, del Grand Tour e dell’Alta cultura e quella paternalistica dell’immigrazione, del fruttivendolo e del pizzaiolo.

Queste scollature vanno adesso rapidamente sanandosi. In un bell’articolo apparso recentemente su “Studi emigrazione” (Anno XXXI, 1994) Desmond

O’Connor, documenta l’impatto del cambiamento dell’immagine dell’Italia sui giovani della seconda generazione, soprattutto dopo un viaggio in Italia, che per vari motivi è sempre più comune:  le tariffe aeree sono diminuite rispetto ai decenni scorsi, le famiglie italiane godono di maggiore sicurezza finanziaria, le amministrazioni regionali italiane sono più generose con borse di studio o programmi di scambio tra i giovani, i genitori incoraggiano di più i figli e soprattutto le figlie a viaggiare da soli, i viaggi all’estero sono più diffusi tra tutti i giovani, ecc.  Ne consegue che, mentre fino agli anni Ottanta si tentava di vagliare la portata del conflitto inter-generazionale tra genitori nati in Italia e figli nati in Australia proponendolo tra due mondi – quello conservatore della famiglia e della comunità etnica da una parte, e quello più liberale anglo-celtico dall’altra – oggi l’identità personale dei ragazzi della seconda generazione può essere vista come negoziazione con un terzo mondo, quello dell’Italia di oggi.  Infatti, quando i giovani vanno in Italia, dopo una visita obbligata (e spesso breve) ai parenti e al paese d’origine dei genitori, vogliono conoscere anche il resto e goderne a tutto tondo.  Per molti di questi ragazzi, conclude O’Connor, l’italianità non è più da cercare tra la comunità emigrata ma direttamente in Italia.

Inoltre, gli anni Novanta hanno visto nelle città australiane una vera e propria esplosione di life ‘Italian style’, che mi ha profondamente colpito.  E non si tratta solo di risotto e calamari, occhiali di Gucci e scarpe di Magli, ma anche di tavolini allineati all’aperto fuori dei caffè, di giardini con le siepi di bosso e di alloro perfettamente tagliate, insomma di un modo di vivere e di un gusto mediterranei, finalmente più consoni al clima australiano di quelli originali britannici.  Se la prima spinta promozionale viene direttamente dall’Italia internazionale, la diffusione capillare è opera della seconda generazione italo-australiana che è stata in Italia e ne ha capito le potenzialità culturali. 

Così non può sorprendere che oggi le nuove generazioni sappiano apprezzare meglio l’importanza del mantenimento dell’italiano.  Se le cifre non potranno più essere quelle di prima, valgono la maggiore convinzione della domanda di italiano e la migliore qualità dei corsi offerti.  Se a questi aggiungiamo un’abbondante sperimentazione come quella del programma Leggi-Ascolta cui accenna Bruno Di Biase o del programma radio riportato da Vittoria Pasquini sull’ultimo numero di S.I.&N.A., l’ottimismo pare giustificato. 

 

Camilla Bettoni