Alla ricerca del metodo perduto

 

 

In questi ultimi anni, accanto alla ormai secolare domanda “grammatica sì, grammatica no”, che ha pervaso il dibattito glottodidattico e le alterne vicende dei programmi scolastici e della politica editoriale nella maggior parte dei paesi europei (Italia inclusa), si è andato affiancando un altro quesito, altrettanto spinoso e d’indiscusso interesse anche interdisciplinare. Mi riferisco al nodo gordiano che vede divisi i fautori del metodo e i suoi detrattori e che più in generale contrappone, da un lato, coloro i quali ritengono necessaria per la trasmissione di un sapere linguistico l’adozione di un numero ben preciso di rigide regole mirate e, dall’altro, i sempre più numerosi ‘rinunciatari’ o ‘pentiti’, e cioè coloro i quali, per il conseguimento di questo stesso obiettivo, dichiarano esplicitamente e programmaticamente di aver dismesso ogni tipo di sistema e di norme.

Come è già accaduto in altri momenti della nostra disciplina e così pure in altri settori delle scienze umane, quasi per reazione ad un periodo di grande sperimentazione e di rilevanti cambiamenti d’approcci e di tecniche, anche in questi nostri anni di fine millennio, dopo un quarantennio che potremmo senza indugio definire ‘rivoluzionario’, sembra quindi riaffacciarsi il rischio che la suddivisione delle scuole e la molteplicità delle sperimentazioni, terminata una benefica ventata di rinnovamento, portino con sé una inevitabile tendenza all’auto distruzione o, meglio, alla disintegrazione del proprio oggetto di studio. Il fenomeno, d’altra parte, si è già verificato nella didattica dell’italiano a cavallo fra Otto e Novecento, quando fu avviata una vera e propria rigenerazione attraverso centinaia e centinaia di libri che, con l’impulso postunitario e le urgenti questioni socio-politiche della scuola amplificarono la nascita delle scienze glottologiche e pedagogiche e l’abbandono dei vecchi schemi logico-grammaticali e delle vecchie tecniche mnemoniche di stampo catechetico. Già allora, però, dopo appena trent’anni di novità, metodo e grammatica furono messi al bando e nel 1908 il loro stesso biografo, Ciro Trabalza, stilò addirittura il loro atto di morte in favore di una totale adesione al concetto crociano di intuizione, alla idea della forza creativa della spontaneità comunicativa e, dunque, ad una visione puramente estetica del linguaggio. Parallelamente, nella didattica delle lingue straniere, alle tante novità introdotte col metodo diretto, fece seguito un ritorno alla tradizione grammmaticale e alle tecniche traduttive.

Si trattò della fine di un’epoca di grande fervore, quella positivista, durante la quale gli approcci metodisti e pratico-oggettivi, grammatisti e logico-teorici, educativi e nomenclatori, si diedero battaglia nei Congressi Pedagogici, come nelle Commissioni Ministeriali, sulle pagine della “Rassegna scolastica” come nei libri di testo dedicati a Giannettino, nella ricca Torino di Cuore come nella più piccola scuola rurale del Sud. Ma non solo: la fine di quell’epoca di largo respiro scientifico e culturale segnò nel nostro paese anche una vera e propria battuta d’arresto nell’ambito della riflessione linguistica e negli studi sul funzionamento del nostro sistema, delle sue numerose varietà, delle rappresentazioni e dei modelli necessari a descriverlo e a trasmetterne i meccanismi comunicativamente più efficaci ed efficienti.

Proprio per questo, quindi, sembra oggi molto utile e importante soffermarsi anche solo rapidamente su queste alterne vicende delle origini della didattica dell’italiano e sul più generale fenomeno cui esse sono ascrivibili, quello del cosiddetto “pendolo”. Infatti, anche se a ragione, grazie all’impatto che le nuove tecnologie hanno già avuto di fatto nell’insegnamento, il mondo accademico e scolastico si sente ormai proiettato nella nuova era del duemila e si interroga sempre più spesso sui nuovi miti e modelli della interattività e della rete, non è da escludere che la memoria e le più ricche esperienze del passato possano risultare di grande utilità nel prevenire, se non altro,  che si ripetano errori uguali a quelli dei nostri predecessori.

In primo luogo, per esempio, piuttosto che narrare con rimpianto di un’epoca aurea in cui il metodo avrebbe funzionato da panacea, si potrebbe semplicemente ammettere che siamo in una fase di transizione, dietro il cui angolo non sappiamo ancora bene cosa possa attenderci. Le nuove tecnologie, infatti, non hanno spostato solo il baricentro della coppia insegnamento/apprendimento verso il secondo termine, ma inducono a considerare con maggior rilevanza i processi rispetto ai prodotti e le strategie cognitive rispetto alle nozioni. Per molti aspetti, sarebbe quindi già utile limitarsi a riconoscere la eccezionale unicità di molti dei mutamenti cui stiamo assistendo e rinunciare a fare gli apocalittici, accettando di essere testimoni consapevoli della svolta epocale che sta già maturando presso le fatidiche “postazioni informatiche e multimediali” dei nostri laboratori, d’importanza certo non inferiore a quella che avvenne dentro le celle di certose e conventi, all’interno degli studioli e nelle singole camerette di castelli e palazzi in seguito all’avvento dell’era Gutenberg.

In secondo luogo, attendendo con vigilanza che l’incalzare delle interpretazioni e dei sempre più rapidi progressi tecnologici ci aiutino a far luce sulle eventuali modifiche intervenute sul modo di comunicare, apprendere e comprendere di noi tutti e dei nostri studenti, si può tentare di individuare i punti cardinali di una bussola che ci orienti fra le odierne scuole di pensiero, le loro ipotesi e tecniche didattiche, esigenza emersa già dal confronto con il Rettore, Pietro Trifone e con alcuni colleghi del nostro Centro Linguistico (in particolare con Letizia Vignozzi). In sintesi, ciò che emerge a livello di macrofenomeno è la necessità delineatasi in questi ultimi anni di coniugare i due grandi filoni più importanti della tradizione glottodidattica, il metodo grammaticale-traduttivo e quello comunicativo, con le istanze di tre scuole di ricerca teorica: quella cognitivista, quella costruttivista e quella psicologico-affettiva.

Molto utili e interessanti, le classificazioni tipologiche proposte in diversi recenti manuali e opere di sintesi, indipendentemente dal fatto che siano più o meno complete, hanno un indubbio valore euristico e sembrano tralasciare solo un aspetto importante della nostra cultura, col quale, forse, varrebbe invece la pena di confrontarsi, e cioè la new age. La glottodidattica, contrariamente a quanto possa apparire in superficie, non è rimasta affatto estranea a tale filosofia o corrente di pensiero o atteggiamento o tendenza, che chiamar si voglia. Anzi, di fatto, tutte le discipline pedagogiche sono state investite in pieno e, oserei dire inevitabilmente, dal tifone della ricerca del benessere, dell’armonia col proprio corpo e del recupero di una dimensione di spiritualità individuale. Così, la glottodidattica, centrata sullo stress, sulla tensione emotiva, sulla concentrazione del pensiero e sul famoso concetto d’attrito di ascoliana memoria, potrebbe essere oggi ribattezzata dell’old age, al di là del fatto che in realtà il meccanismo tensivo sia ancora molto diffuso e largamente impiegato, per esempio, nei cd-rom che simulano le situazioni più varie e utilizzano la strategia ludica. A questo filone si sono contrapposte da qualche decennio tecniche “altre” come, per esempio, quelle del Total Physical Response di Asher o la suggestopedia di Lozanov, basate sul coinvolgimento fisico-mentale globale e sul rilassamento. L’elemento più interessante sul piano scientifico e comune a questo genere di sperimentazioni è, a mio avviso, una visione sinestesica del processo di apprendimento. Resta da verificare, e mi auguro che il nostro Centro possa contribuire a farlo, se tante esperienze didattiche, alla luce delle più spregiudicate teorie della comunicazione, della metodologia del cambiamento e della submodalità, possano portare a rifondare l’idea stessa di segno e la concezione ancora fondamentalmente metaforica che sottostà alle rappresentazioni tuttora prevalenti di significato e significante. 

Last but not least, rimane come terza istanza l’auspicio che nell’attuale dibattito si eviti almeno d’assumere nuovamente a metodo un sistema governato dalla meta-regola che nega il metodo e che in luogo di tale paradosso si affermi, piuttosto, in maniera chiara e risoluta che il rischio di ammettere in modo categorico un solo metodo è grande quanto quello corso da ogni cultura che rinunci a cercare un metodo e smetta di credere nella possibilità di sperimentare strategie didattiche e comunicative sempre nuove. Al CLUSS siamo convinti che sia così ed è per questo che la varietà dell’offerta didattica rimane per noi prioritaria nella proposta di temi, attività e tecniche, sia nei corsi di lingua e cultura svolti in sede, sia nei corsi di aggiornamento e formazione destinati agli addetti che hanno l’onere e l’onore di insegnare l’italiano nelle parti più disparate del mondo, alla ricerca di un metodo, in realtà, mai perduto.

 

Maria Catricalà

Direttore del Centro Linguistico

 

 

Riferimenti bibliografici

 

1. Per l’aspetto storico: Balboni P., Gli insegnamenti linguistici nella scuola italiana, Padova, Liviana, 1987; Catricalà M., L’italiano tra grammaticalità e testualizzazione, Firenze, Accademia della Crusca, 1994; Raicich M., Scuola. Cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa, Nistri-Lischi, 1981; Titone R., Cinque millenni di insegnamento delle lingue, Brescia, La Scuola, 1986.

2. Peril panorama di scuole e tendenze: Serra Borneto C., C’era una volta il metodo. Tendenze attuali nella didattica della lingue straniere, Roma, Carocci, 1998 (nel Quadro riassuntivo si elencano ben tredici differenti approcci metodologici); Balboni P., Tecniche didattiche e processi di apprendimento, Padova, Liviana, 1991; Cangià C., L’altra glottodidattica, Firenze, Giunti, 1998; Ciliberti A., Manuale di glottodidattica, Firenze, La Nuova Italia, 1994; Pallotti G., La seconda lingua, Bologna, Bompiani, 1998.

3. Sull’applicazione del metodo suggestopedico: Vignozzi L., in “S.I. & N.A.” (a. I n.1).