FORME E MODELLI DELL'ITALIANO RADIOFONICO
 

Lorenzo Coveri è professore associato di Linguistica Italiana presso l'Università di Genova.

La pubblicazione, da parte dell'Accademia della Crusca, di un poderoso volume su Gli italiani trasmessi. La radio (Firenze 1997; 840 pp., 70.000 lire), atti di un incontro sul tema promosso dal Centro di studi di grammatica italiana il 13-14 maggio 1994, induce a riflettere, con dati ed argomenti nuovi, sulla particolare natura semiotica del linguaggio radiofonico rispetto agli altri mezzi di comunicazione di massa, sul ruolo svolto dalla radio nel processo di unificazione linguistica italiana, sulle forme e i modelli riflessi dalle vicende recenti della radiofonia pubblica e privata in Italia.

Per quanto riguarda il primo punto, è noto che quella della radio appartiene, tra le varietà diamesiche, alla categoria della lingua trasmessa, all'incrocio tra scritto e parlato, con caratteristiche (riproducibilità a distanza) di superamento dell'oralità già illustrate a suo tempo da Francesco Sabatini e qui riprese dallo studioso in un quadro più ampio alla luce della nozione di "distanza comunicativa". Ma dal punto di vista del fruitore, la radio è "linguaggio per l'udito", dove tutto deve essere detto o evocato, dove tutto accade nella parola, dove si deve vincere la tirannia del silenzio. Di qui la necessità di interrogarsi sulla qualità del parlato radiofonico rispetto al parlato-parlato.

In secondo luogo, è ben noto il rilievo assunto dai mass media (cinema, radio, televisione, canzone, per nominare i principali) nella spinta all'italianizzazione del paese. E la radio ha fatto la sua parte, specialmente nelle origini (EIAR, decisivo mezzo di organizzazione del consenso nel ventennio fascista e tentativo, come una "BBC italiana", di imporre un modello di pronuncia ispirato all'"asse Roma-Firenze") e nel primo trentennio di storia repubblicana (con modelli di parlato-scritto ancora piuttosto "inamidati"): sugli aspetti storici della radio, informano i contributi di Raffaelli e di Tesi nel volume citato.

L'anno di svolta, per la radiofonia, è il 1975, data di irruzione nell'etere delle radio private (allora dette "libere", rispetto alla RAI), con modelli di parlato disinvolto e colloquiale, ammiccamenti al pubblico giovanile, superamento della monodirezionalità con la telefonata in diretta e libero fluire del messaggio degli ascoltatori (fino al caso estremo delle telefonate "senza filtro" di Radio Radicale): se ne occupano Moneglia (che studia tra l'altro il linguaggio del noto animatore di Radio Dee-Jay Albertino) e, con Picillo, chi scrive (sul dialetto nelle radio locali). Anche la radio di stato è stata costretta, tra resistenze e cali di ascolto, a sintonizzarsi sul target di pubblico delle private, schiacciata oltre a questo dall'invadenza della televisione. Come ricorda Aldo Grasso, allora direttore dei programmi di Radio RAI, sull'esempio d'Oltreoceano si sta passando dalla radio "di palinsesto" (che presuppone un ascolto centrato su singoli programmi, per appuntamenti) alla radio cosiddetta "di flusso", che adotta uno schema di programmazione a moduli orari, detti clock, ripetuti con variazioni controllate nell'arco della giornata.

Quest'ultima si rivolge ad un ascolto di breve durata, occasionale, oppure protratto ma frammentato, con una modalità simile allo zapping televisivo (lo scanning), in un convulso scambio di ruoli intermediologico. E l'attenzione dei linguisti si dovrà spostare "dalla parte del ricevente". Spostarsi sull'ascoltatore vorrà dire non solo chiedersi chi, ma anche quando, dove, in che condizioni materiali, con quali vincoli spaziali avviene l'ascolto; e ad una radio detta "generalista", adatta a un pubblico indifferenziato, si sta sostituendo una radio "di nicchia", che autoseleziona la propria audience, e da essa si fa riconoscere, con un proprio sound (parlato-musica riconoscibile, o meglio, parlato costruito sul ritmo della musica).

In questo quadro in movimento, assumono infine rilievo le ricerche sui generi radiofonici; l'informazione, la cronaca sportiva, quella giudiziaria, l'autocoscienza, la divulgazione scientifica, le rubriche di musica classica, il radiodramma (se ne sono occupati, rispettivamente, Diadori, Paradisi, Bellucci e Carpitelli, Matarrese, Antonini, Salibra, Alfieri e Stefanelli), che coprono tutta la scala che va da un massimo di programmazione a un massimo di improvvisazione linguistica. Per analizzare una massa così eterogenea di forme testuali, è necessario predisporre una sorta di "grammatica del trasmesso", dall'importante fenomeno dell'intonazione (Avesani, Cresti) al lessico (i forestierismi esaminati da Fanfani) alla pragmatica dei "fantasmi del dialogo", le telefonate in diretta (Sobrero).

Come si è detto, all'avvento delle radio locali e all'intervento in diretta dell'ascoltatore attraverso il telefono si deve, a metà degli anni Settanta, quella sorta di "rivoluzione copernicana" che ha via via ridimensionato, per seguire una indicazione di Raffaele Simone, il ruolo della radio (e degli altri media) da quello di modello linguistico a vantaggio di quello di specchio delle varietà del repertorio linguistico italiano odierno. Come ha illustrato Nicoletta Maraschio nell'analisi linguistica di un'intera giornata Radio RAI, di fronte al filtro del microfono si presenta una vera e propria Babele di forme, stili e varietà che richiedono un modello interpretativo potente e modalità di analisi sofisticate, che consentano, tra l'altro, la piena utilizzazione didattica degli "italiani radiofonici" come riflesso della complessa e variegata realtà linguistica italiana di oggi. La vecchia "scatoletta magica" tanto cara a Brecht ha ancora tanto da dare. E, è ovvio, tanto da dire.
 

Lorenzo Coveri
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