UN CUORE NELLA FABBRICA
"LA DISMISSIONE" IL ROMANZO DI ERMANNO REA
............................(1) cane solitario fotografato in bianco e nero
sullo sfondo di una fabbrica e di una collina cementificata, nella spettrale
fissità del panorama che occupa la copertina del romanzo La dismissione di
Ermanno Rea (Rizzoli, pagg. 370, euro 17,50), sembra la rappresentazione
simbolica dello spaesamento di Vincenzo Buonocore, nato a Napoli nel 1948,
dipendente dell’Ilva, il gigantesco complesso siderurgico di Bagnoli: un
sobborgo a nord della città in una zona sul mare ricca di potenziali risorse
turistiche, la meno adatta a insediamenti di ............................(2) genere. Una ferita nel paesaggio che inquina
e diffonde benessere, cioè le contraddizioni dello sviluppo. È lui,
l’indimenticabile Buonocore, il testimone tra verità e fantasia che agli inizi
del nuovo secolo, interrogato da Rea, racconta l’agonia della quasi centenaria
azienda, i lati oscuri e ambigui della politica che ne hanno provocato la
svendita e la demolizione, emblema di una città interrotta, complici
l’inettitudine e il malaffare. (Il libro di Rea verrà presentato alla mensa
dell’Ilva alle 18,30 del 22 maggio: partecipano, fra gli altri, Antonio
Bassolino, Sergio Cofferati, Giulio Ferroni e Rosa Russo Jervolino).
Figlio di un provetto artigiano che intaglia il legno, Buonocore
entra all’Ilva come operaio. Nel suo patrimonio genetico - dall’età del legno
all’età del computer - agiscono la povertà subìta come umile e aspra scuola di
vita, intensi studi professionali, la passione per il lavoro ben fatto, il
rifiuto del luogo comune che vuole i napoletani estranei all’etica produttiva.
Apprezzato per la sua intelligenza, promosso al rango di tecnico, il grande
momento arriva con la dismissione dell’acciaieria. A lui viene affidata la
responsabilità di un arduo compito: smontare, senza danneggiarlo, l’impianto
delle colate continue venduto ai cinesi. Buonocore conquista anche la loro
fiducia e l’amicizia di Chung Fu, un funzionario governativo, forse una spia.
Lo smontaggio "a regola d’arte" dell’impianto diventa
un’ossessione: "Anch’io ho diritto al mio capolavoro", dice
Buonocore, ma la sua ansia pragmatica è considerata un eccesso di zelo, tanto
che suscita inimicizie tra i colleghi "irriducibili" preoccupati di
perdere il posto. Quando riceve lettere anonime di minacce, riconosce
onestamente la "tetra bellezza logica" delle ipotesi avverse alla
dismissione: un’assurdità, decisa dopo una ristrutturazione costata mille
miliardi, il prodotto assai migliorato, il licenziamento di maestranze vicine
alla camorra. La moglie Rosaria, spigolosa, occhi "feroci e
indolenti", patisce la sua sofferenza: e la sera gli impone "massicce
dosi di sesso terapeutico" sperando di lenire l’angoscia del campione di
Ferropoli, città di Dio e anticamera dell’inferno.
È uno spettacolo l’attivismo maniacale di Buonocore, l’estroso
Tarzan della manutenzione impegnato a eseguire gesti esatti, definitivi, con
l’allucinata sapienza fabbrile di un moderno Vulcano. Un manuale vivente. Un
modello di inventiva tecnologica. Ricondurre all’obbedienza, mediante opportuni
ritocchi, le quattro stampigliatrici che da anni si guastavano è per Buonocore
un piacere quasi orgasmico. Schiavo dello spirito di responsabilità, Narciso
indomabile, si concede capricci di epicità appagante fino alla commozione. Una
notte, nelle vesti di un Achab tecnologico, ingaggia una lotta spietata contro
un riottoso bullone, il suo Moby Dick, riuscendo a svitarlo senza ricorrere
alla fiamma ossidrica.
Buonocore si aggiunge alla schiera degli operai (protagonisti o
figure minori) di Bernari, Bilenchi, Pratolini, Ottieri, Volponi, Primo Levi,
Balestrini, Scalfari, per citarne alcuni, che hanno incarnato in certi romanzi
il mondo del lavoro, specchio di nevrosi individuali e collettive, mutamenti
sociali e culturali, rapporti politici e sindacali, questioni industriali,
ideologie di classe. Un mondo difficile da rappresentare con un linguaggio
adeguato, ad esempio il gergo della tecnologia. Eppure, senza indulgere al mito
modernista della Macchina, Rea l’ha fuso nel tessuto narrativo con impeccabile
nitidezza e accensioni espressioniste di cospicuo vigore figurativo: la
"fumifera città rossa e nera" sotto un cielo reso incandescente dai
suoi bagliori di fuoco; "macule vermiglie" corrono sui muri e
somigliano a "insetti in guerra tra loro su un campo di battaglia
insanguinato"; le esplosioni provocate dalla dinamite per demolire gli
impianti. Sembra un quadro di Luigi Crisconio che intorno al 1930 dipinse il
volto industriale di Napoli.
Tra cronaca e finzione, Rea ha scritto un romanzo di tensione
assoluta e struttura robusta, brulicante di episodi e personaggi grotteschi,
divertenti, patetici, dolorosi, appena incrinato da qualche orpello di maniera,
sporadiche incertezze di stile, veniali striature di simbolismi ideologici,
refrattario - perché? - al dialetto. Oratorio profano vibrante di emozioni,
solisti e coro intonano un inno sommesso all’Homo Faber Neapolitanus emerso dai
vicoli della ex capitale, probabilmente destinato a un futuro precario ma
riscattato dalla dignità del lavoro in fabbrica.
La dismissione però è anche uno struggente romanzo sul senso di
appartenenza, l’altra faccia della perdita. Infatti, la sindrome perfezionista
di Buonocore, poeta della precisione, dipende dall’eccesso di razionalità
costitutivo del suo carattere e, insieme, dal senso di appartenenza lievitato
in modo abnorme: perché l’identità individuale, minata da carenze, disarmonie,
fratture storiche, ha bisogno di riconoscersi in un legame forte, solido,
materiale, storicamente motivato. Dismessa la fabbrica, entra in crisi
l’identità: Buonocore resta "un uomo spaesato", come tanti che a
Bagnoli elaborano il lutto dell’Ilva, una patria dissolta. E nella sua testa
l’idea della dismissione frantuma il tempo, lo riduce in briciole. È il tempo
agonico di due corpi, l’umano e il tecnologico, di due funzioni alla resa dei
conti con i rispettivi espianti - la civiltà operaia e l’Ilva - programmati da
volontà superiori.
Tutto il romanzo, allora, potrebbe essere letto come una sequenza
ininterrotta di dismissioni: l’Ilva; la turbata solidità della coppia
Buonocore; la speranza recisa della cittadinanza di Bagnoli; la morte di
Marcella, orfana di un collega di Buonocore, innamorata di lui che non ha il
coraggio di superare i confini di una trepidante non-storia. In ..........................................(3)
ragazza allo sbando, "bella per eccesso
di malinconia", per un inspiegabile ardore che le affiora sul volto e
negli occhi dove brilla una "ostinata luce di ironica tristezza", si
consuma la dismissione più drammatica: Marcella lascia che la sua vita si
consumi, e svanisca sotto i colpi di una grave malattia. Rosaria si costringe a
"pause di riflessione" lontana dal marito: qualcosa l’ha irritata,
forse la furtiva affettuosità per Marcella; e reagisce tacendone, anche se la
sua qualità primaria è la parola "che sa arrivare diritto all’intelligenza
degli altri". Se in Mistero napoletano (Einaudi 1995) Rea aveva dato prova
di finissima sensibilità nel raccontare l’inquieta figura di Francesca Spada,
non è un caso che in ..........................................(4)
romanzo, per sua natura declinato al
maschile, Rosaria e Marcella rappresentino al meglio due aspetti contrastanti e
diversi - la forza e la debolezza - dell’orgoglio femminile.
Pervade le pagine di Rea uno storicismo freddo, altero, rigoroso,
vigile nel trasmettere al lettore la consapevolezza che Buonocore e l’Ilva sono
un piccolo segmento locale di un processo globale. La dismissione, si chiede un
professore nel romanzo, non si sta trasformando da un atto di normale
sottrazione in "un rito di autocannibalismo collettivo?". E dice che
la parola "dismissione" - orrenda, aggressiva, onnivora - gli incute
paura proprio "per la sua capacità di alludere al mondo intero": un
perfetto identikit del romanzo. Chissà che il professore non abbia meditato
sull’immaginazione sociologica, la facoltà che secondo Charles Wright Mills
permette di capire le realtà "intime del nostro io in rapporto con le più
vaste realtà sociali". Una facoltà radicata nella narrativa di Ermanno Rea
e che lo scrittore, soprattutto con La dismissione, ha saputo trasfigurare in
valore estetico.
[Enzo Golino - La Repubblica, 14 maggio 2002]