Emilio Cecchi
Il Gattopardo, dal romanzo al film
(dal volume "Il Gattopardo")
Le mie impressioni del film Il Gattopardo, non ancora presentato nelle pubbliche sale, sono state assai intense e felici.
E m’è venuto di metterle in carta, prima ancora d’aver potuto verificarle con rinnovate visioni del film, e prima di aver letto ciò che del film scriveranno gli altri. Così in qualche modo mi illudo di serbarle, soprattutto per il mio piacere, nella loro immediatezza e integrità; in attesa di vedere se e quanto esse potranno resistere, o quanto saranno corrette dal tempo.
Non è molto che ancora si considerava con deciso sospetto, se non con vera e propria avversione, qualsiasi tentativo di derivare le immagini d’un film da un racconto o un romanzo d’autore.
E deve riconoscersi che, nel maggior numero dei casi, questi negativi atteggiamenti di purismo letterario, erano perfettamente giustificati.
Rimane tuttavia il fatto, per dirne una, che almeno una metà della più grande pittura prodotta nel corso dei secoli, fu ispirata da motivi nientemeno che del Vecchio Testamento, dei poemi dell’antichità classica, e dei Vangeli.
L’elemento verbale fecondava l’elemento visivo. Il che non esclude che tanto il quadro che il film siano cose molto diverse dall’opera letteraria che può averli suggeriti e dalla quale s’intitolano.
E che Il Gattopardo di Luchino Visconti non possa né voglia essere Il Gattopardo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sebbene da questi abbia mutuato almeno una parte della sua sostanza vitale. Credo che una delle più vive ragioni d’ammirazione, allorché il film Gattopardo comincerà a girare il mondo, starà proprio nel rendersi conto dell’arte con la quale furono trascelti nel romanzo spunti e situazioni specificamente pittorici; e dall’armoniosa efficienza alla quale furono portati nel film, dove il tono di tutto il discorso visivo, per così chiamarlo, è in generale pacato, largo e senza nessuna sforzatura. Al quale proposito è facile notare, cominciando da Ossessione e da La terra trema, e passando a Notti bianche, a Rocco, a Senso, ecc., come lo stile di Visconti sia andato facendosi sempre più fluido e trasparente, perdendo della sua prima tensione, della sua esclamativa lentezza e quasi immobilità; e talvolta, diciamo pure, del suo decorativismo, che ne irrigidivano il ritmo, ritardavano il racconto e stupivano più che non convincessero con quella suprema convinzione ch’è tanto più irresistibile quanto meno se ne ricerca e se ne riconosce la fonte. La materia e la successione degli avvenimenti del romanzo sono talmente note ch’è superfluo mettersi qui minutamente a rievocarle ed analizzarle. Gioverà se mai soffermarsi su alcuni di quei luoghi in cui letteratura e cinematografia furono obbligate ad adottare soluzioni particolari, in rapporto ai mezzi d’espressione di cui rispettivamente potevano disporre.
Intanto sappiamo che, allo sbarco garibaldino a Marsala nel maggio 1860, la struttura feudale del regime borbonico sta crollando, quasi senza nemmeno provarsi a resistere. E assistiamo a questo crollo dall’interno della casa del principe Fabrizio Salina, latifondista nonché dilettante astronomo e matematico, la cui figura forse non è che un autoritratto liricizzato del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del romanzo Il Gattopardo.
Da tempo il patrimonio dei Salina patisce una segreta inarrestabile erosione, ma senza che le disponibilità finanziarie e il prestigio morale e sociale del principe siano troppo profondamente intaccati.
Più dei figliuoli, pallide figure che restano in penombra, è vicino al principe Fabrizio, ma senza la sua sorridente, un po’ ironica malinconia, e senza il suo spirito contemplativo, il giovane nipote Tancredi, brillante, squattrinato, che subito arruolatosi con i garibaldini ha combattuto valorosamente ed è rimasto ferito nelle giornate di Palermo. Dopo di che, bisogna anche notare la fretta con la quale, non appena possibile, dalle milizie garibaldine egli passa all’esercito piemontese.
Sembrerebbe che Tancredi dovesse essere il fidanzato ideale per Concetta, figlia maggiore del principe Fabrizio. Tancredi invece, appena vistala, si innamora di Angelica, splendida figlia d’un nuovo arricchito, don Calogero, sindaco di Donnafugata, paesetto dove i Salina posseggono un antico palazzo di centinaia di stanze, e dove sono andati a ritirarsi per alcuni mesi, mentre l’azione garibaldina prosegue fino al plebiscito per la riunione della Sicilia col Piemonte.
La bravura con la quale il Visconti e collaboratori, dalle situazioni e dai fatti del romanzo, hanno estratto e sintetizzato gli elementi essenziali alla presentazione sullo schermo, conferisce al Gattopardo un prestigio tecnico che per un pezzo, nella storia del nostro cinema, rimarrà esemplare. Di rado operazione simile fu condotta con tanta finezza; e credo possa sostenersi che, in più d’un caso, la sostanza poetica e storica proposta dal libro, nel film risulta decisamente vitalizzata e irrobustita.
Presso alla sessantina, e a poca distanza dalla morte, nel raptus d’una impetuosa ispirazione, il Tomasi di Lampedusa aveva saputo realizzare il suo romanzo. Ma occorre anche ricordare ch’egli lo lasciò manoscritto, e in una condizione in cui restavano, come ancora rimangono, dubbi e incertezze sulla collocazione di alcune parti, e addirittura sulla accettazione di certe altre. Fra queste parti sono: la visita di padre Pirrone, che è il prete di casa dei Salina, a San Cono suo borgo nativo, e le sue conversazioni politiche con i villani. Un’altra parte è costituita dalla serie degli episodi successivi alla morte del principe Fabrizio; allorché rivediamo, con i loro"direttori spirituali”, Concetta e le sorelle, ormai ragazze invecchiate; e seguiamo la burlesca storia delle reliquie fasulle: tutte occasioni d’un umorismo piuttosto stanco e pesante, e ciò ch’è peggio quasi estraneo all’intimo tono del romanzo. Della visita di don Pirrone a San Cono non sopravvivono che frammenti dell’incontro con i contadini e l’ìerbuario”; ma l’incontro è trasportato in un’osteria sulla strada di Donnafugata. E quanto agli episodi successivi alla morte del principe Fabrizio, opportunamente essi sono stati del tutto aboliti. Invece, fin da principio, vengono introdotti ex novo nel film alcuni quadri che vigorosamente descrivono la battaglia dei garibaldini e della popolazione contro i borbonici, nelle strade di Palermo, il che serve ad immettere direttamente quei motivi rivoluzionari e guerreschi che nel romanzo circolano solo in accenni informativi, serpeggianti nei dialoghi, e non prendono corpo in situazioni e figure ben spiccate. Ma l’esempio più alto e mirabile della maestria con la quale sono ricomposti ed esaltati gli sparsi motivi del romanzo, cosicché essi acquistano nel film una potenza moltiplicata, è nel ballo palermitano a palazzo Ponteleone: ballo con il quale il film si conclude, e la cui durata è da sola più d’un terzo dell’intiero spettacolo.
Non mancheranno dozzinali ironie sulla lunghezza e maestosità di questo ballo. Ma forse è anche più inevitabile che esso sia destinato a diventare un classico modello del genere, un oggetto di citazione obbligatoria. Il sesto capitolo del libro offriva una doviziosa miniera al regista; ed egli l’ha ancora arricchita, scavandola sempre più a fondo, senza mai restare imprigionato (come è possibile che qualche altra volta gli fosse successo) nella cesellata"pagina d’antologia”, nell’astratto"pezzo di bravura”; al che questa volta contrastavano sia la stessa grandiosità del quadro, sia la severità morale e storica dei motivi evocati e la complessità e legatezza del loro intreccio.
Da tutte le parti del romanzo, tali motivi sono attratti e dolcemente travolti nel turbine di questo ballo. Ed anche dalla musica (nella quale è fra l’altro incluso un valzer inedito di Verdi), traggono una suggestione più patetica e talvolta quasi straziante, che di rado è concessa, in sé e per sé medesima, alla parola soltanto parlata e scritta. E' una combinazione innegabilmente ibrida di mezzi espressivi. Sullo sfondo sinfonico, la parola di dialogo, che in generale è riportata letteralmente dal libro; e l’immagine coloristica che già in Senso il Visconti aveva cominciato ad adoperare con un così robusto ed insieme delicato magistero. Ma tale ibridismo, che ricorda quello del melodramma ed in genere dell’ìopera musicale”, non perciò diminuisce o compromette la prepotenza degli effetti. Al centro dell’attenzione e dell’ammirazione, è nel ballo l’ingenuo, loquace colonnello Pallavicino, sentimentale e compassionevole vincitore di Garibaldi ad Aspromonte E il ballo, fra le altre cose, è in qualche modo anche la celebrazione obliqua, un poco ipocrita, di questa lamentevole vittoria; com’è, insieme, la consacrazione del capovolgimento di tutta una struttura storica, il riconoscimento di nuovi ideali, in parte genuini, in parte mendaci e supposti; l’affermazione d’entusiasmi sinceri, quanto di volgari ambizioni e interessi. Tutt’altro che ostile a questi mutamenti di cui egli sente la fatalità, e da cui, come tanti altri egli aspetta, ma senza illusioni, il formarsi dell’Italia nuova: il principe Fabrizio è troppo memore, e troppo riconoscente al suo mondo d’una volta per sapere rinnegarlo, e staccarsene a cuor leggero.
Ha rifiutato il laticlavio, offertogli dal governo piemontese, essendo consapevole del costo di rinunce, d’ingiustizie, di complicità e di dolori ch’è richiesto da ogni sorta di azione politica. E nel contrasto con l’eccitazione della folla, in quel baccanale burocratico e militaresco, fra le ostentazioni del cerimoniale, lo scintillio del lusso, delle vanità, sente accentuarsi, ma senza amarezza, la propria solitudine, e il distacco d’un destino che sta ormai per avere il suo naturale compimento.
Fra le misteriose bellezze di queste scene del ballo, oltre alla varietà dei motivi che in esse sono sospesi, è la leggerezza e l’ariosità con cui sull’onda sonora le fortune e le sorti pubbliche e private galleggiano, s’intrecciano, si respingono o si fondono. Per la qualità dell’arte, viene da ricordarsi di qualcuno dei grandi"ricevimenti” di Proust. Ma l’angoscia del principe e il suo senso di distacco s’accrescono in mezzo alla fiumana della gente conosciuta e di quella sconosciuta; e nell’allontanarsi e riavvicinarsi delle ondate dei suoni, sembra al principe di essersi sentito sfiorare dall’ala invisibile della morte. A questa morte, che nel libro ha la sua lenta preparazione e cronaca aneddotica, non assistiamo nel film. Ma sentiamo come amorosamente essa è accettata e aspettata dal principe, allorché solo soletto egli esce dal ballo per tornarsene a casa; e traversando nel grigiore dell’alba un quartiere devastato e deserto, s’inginocchia al Viatico che un prete col suo chierichetto porta in una di queste stamberghe a qualche povero agonizzante.
L’ultima parte del fim vibra tutta di questa commoventissima esaltazione, la quale ha uno dei suoi momenti più intensi nel valzer che, prima di lasciare palazzo Ponteleone, il principe balla con Angelica, questa ardita beltà popolana che ha incantato e domato l’orgoglio aristocratico dei Salina. Non senza stupore gli astanti capiscono oscuramente d’essere testimoni d’una simbolica investitura, d’una sorta di testamento cavalleresco, di un passaggio di poteri, del nascere, s’è detto, di un nuovo mondo. Chiari ed istruttivi come il testo e le documentazioni d’una buona monografia storica, il libro ed il film sono la miglior risposta che l’arte poteva dare alle tante stupidità che oggi si leggono intorno alle figure e gli avvenimenti di una grande epoca come il nostro Risorgimento. E se nei personaggi del film la più sottile e rigorosa verità documentaria diventa pittura e poesia, gli stessi paesaggi, le campagne, i rustici"interni”, nella loro fotografica oggettività, sembrano trasfigurati, e guardati con gli occhi d’un altro tempo: con gli occhi della Storia.
Fanno pensare all’Abba, al Lega, al Fattori: siano le luminose colline che s’incontrano nel viaggio verso Donnafugata, siano gli sfondi boscosi dei luoghi di caccia, o le grandi soffitte, gli abbandonati quartieri del palazzo di Donnafugata, amorosi nascondigli di Tancredi e di Angelica.
Credo veramente si possa essere sicuri che il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa assai volentieri avrebbe visto questo film.
[Emilio Cecchi]