Opere teoriche: De vulgari eloquentia
De vulgari eloquentia

L'opera fu composta nei primi anni dell'esilio tra il 1304 e il 1305, dunque la sua stesura avvenne circa negli stessi anni del Convivio e come il Convivio l'opera è incompiuta. Il trattato fu scritto forse a Bologna. Benché infatti le nostre informazioni sulla biografia dantesca siano lacunose, è stato sottolineato il rapporto stretto che esiste tra l'impianto concettuale di quest'opera e la cultura latina e volgare della Bologna del tempo, dove forse si trovava in quel tempo Cino da Pistoia e dove insegnava all'Univeristà Gentile da Cingoli, un grammatico da cui dipendono, secondo Maria Corti, molte delle idee linguistiche di Dante. Il titolo del trattato non deriva dalla tradizione manoscritta , ma dal Convivio stesso: in un passo dove è trattato il problema del mutamento che le lingue naturali subiscono nel tempo e nello spazio, Dante annuncia un'opera che ha intenzione di comporre:

Di questo si parlerà altrove più computamente in uno libello che io
intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.

Convivio, I, V, 10, Garzanti, Milano, 1980

E nel trattato stesso Dante afferma che l'argomento del testo è la "doctrina De vulgari eloquentia". Di eloquenza delle lingue volgari per la verità furono scritti nel secolo precedente molti trattati. Ma l'opera di Dante da questa tradizione manualistico-precettistica si differenzia con nettezza. Intanto perché le fonti dell'opera sono molto ampie e varie, segno di un'informazione non municipale: oltre ai manuali di retorica (Guido Faba, il Trésor di Brunetto Latini) e ai trattati di poetica transalpini, Dante ebbe certo presente i testi antichi (la Rhetorica ad Herennium , il De Inventione di Cicerone, l'Ars poetica di Orazio). Ma soprattutto perché l'impianto concettuale dell'opera deriva dalle innovative teorie filosofico-linguistiche della grammatica speculativa , che Dante acquisisce soprattutto da Gentile da Cingoli. Infine perché tali teorie s'intrecciano in molto originale con le convinzioni letterarie di un poeta che ormai da vent'anni sperimenta le possibilità espressive del suo volgare.

Nel primo libro Dante stabilisce una distinzione tra la lingua naturale, che è patrimonio di tutti, d'uso comune che s'apprende spontaneamente da bambini e, proprio perché usata da chiunque in ogni situazione, priva di codifica e regolarità e la "gramatica", una lingua regolata, che s'apprende dai maestri, la cui padronanza richiede assiduità di studio. E che questa lingua normata non sia unicamente da identificare col latino, ma possa essere ricercata anche in una lingua naturale deriva a Dante proprio dalla riflessione dei grammatici speculativi. Il trattato ripercorre le origini del linguaggio umano. Al momento della creazione Dio dotò l'uomo di parola, unico tra gli esseri creati. Dio non diede ad Adamo una lingua, infuse piuttosto nel nostro progenitore il principio formativo della lingua (la "forma locutionis"), cioè la regola che governa i fenomeni fonici, morfologici e sintattici della lingua, il principio organizzativo in assenza del quale si cade nel caos. Grazie a questo dono divino Adamo fabbricò la prima lingua dell'umanità (l'ebraico): quando egli nel giardino dell'Eden diede nome alle cose create, tradusse in atto la potenza che Dio gli aveva concesso. Ed è precisamente questa potenzialità che Dio tolse poi agli uomini, quando lì punì per la superba costruzione della torre di Babele. La confusione delle lingue è drammatica non perché privò l'umanità dell'unica lingua posseduta fino a quel momento, ma piuttosto perché concellò quella facoltà regolatrice e ordinatrice che consentì, prima del castigo divino, l'esistenza di una lingue naturale e nello stesso tempo universale. Dopo la maledizione della torre le lingue naturali furono condannate alla perpetua instabilità, alla variabilità, alla corruzione determinata dall'arbitrarietà del segno linguistico. Incapaci ormai di comunicare tra loro, gli uomini si dispersero nel mondo, quelli che abitarono l'Europa ebbero una lingua triforme ("ydioma tripharium") , una parte occupò il settentrione, una parte il meridione, una parte (i greci) il sud-est. Da queste lingue ebbero origine numerosi volgari e in particolare dalla lingua del meridione si svilupparono tre volgari: le lingue in cui l'avverbio affermativo è oc, oil e sì . La "lingua del sì" è quella parlata nella penisola italianae su di essa appunto verte il trattato. La confusione delle lingue determinò comunque la necessità di una lingua regolata e inalterabile che garantisse la comunicazione umana: il latino fu appunto creato dagli uomini per poter comunicare, ma siccome è una lingua artificiale può essere posseduta solo da una ristretta cerchia di dotti.

Per Dante allora il problema si pone in questi termini: allo stato attuale il latino è idioma universale ma non naturale, per contro i volgari sono naturali e non universali. Ma, sostiene Dante, una lingua naturale può aspirare ad essere una "gramatica", a condizione che siano individuati i principi generali regolatori che la governano al di là dei suoi modi accidentali; a condizione cioè che siano individuati i meccanismi intellettuali che sono alla base del suo funzionamento; in altri termini a condizione che siano individuati gli universali linguistici che si trovano nella varietà degli idiomi. Sicché un volgare non può essere direttamente lingua universale, ma può aspirare ad esserlo purché si trovi nella molteplicità accidentale del suo esistere l'unità sostanziale che definisce ogni lingua. Dante teorizza insomma la possibile esistenza di un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale. Illustre, perché perfetto e nobilitato dall'uso artistico; cardinale, perché dev'essere il cardine attorno a cui girano tutti i volgari locali; aulico, perché degno d'essere parlato in una reggia (ÇaulaÈ, in latino); curiale, perché dev'essere preciso ed equilibrato.

Nel secondo libro, il trattato passa in rassegna i diversi volgari italiani (quattordici ne classifica Dante a seconda delle zone geografiche), perché intende dimostrare che nessuna delle parlate italiane ha le caratteristiche di regolatezza indispensabili invece al volgare illustre, ma anche che in ciascuna di esse sono ravvisabili quei caratteri che di un volgare fanno un volgare illustre. Tant'è vero che se il volgare illustre non esiste in nessuna parte d'Italia, tuttavia vi sono già esempi di volgare illustre in alcuni scrittori italiani, diversi per origine geografica ma capaci di dimostrare che l'ideale di una lingua naturale sottratta all'instabilità dell'uso non è un'utopia, anzi, già è possibile delinearne il canone sulla base di modelli autorevoli, che Dante individua nei Siciliani, in Guinizelli, Cavalcanti, in Cino da Pistoia e nella sua stessa opera. A questo punto il trattato esamina l'uso del volgare nella poesia italiana a partire dalla scuola siciliana. Dante teorizza qui che materia del volgare illustre seve essere elevata ed egli propone "le armi, l'amore e la virtù". Egli vede anche una correlazione tra nobiltà della materia ed eccellenza del rimatore: solo gli uomini dotati di talento e dottrina possono scrivere in volgare illustre. Teorizza poi lo stile che si addice ad ogni materia: dei tre stili che la retorica antica e quella medievale codificano (tragico, comico, elegiaco) solo il tragico si adatta alla materia elevata, e in questo stile "la lingua del sì" ha superato sia la langue d'oc che la langue d'oil, grazie al modo di poetare "dolce" e "sottile" che coniuga i modelli della tradizione lirico-mistica con una complessa elaborazione concettuale e filosofica.

Infine Dante esamina le forme metriche usate dai poeti che l'hanno preceduto e stabilisce tra esse una gerarchia come per gli stili: la più nobile tra le forme poetiche è la canzone e il verso più elevato è l'endecasillabo. Analizza anche specificamente l'organizzazione dalla canzone e, citando come esempi proprie canzoni (Amore che ne la mente mi ragiona, che apre il terzo trattato del Convivio e Donne ch'avete intelletto d'amore che compare nel XIX capitolo della Vita nova ) Dante teorizza la struttura ideale della canzone stessa, fondata sulla simmetria e nello stesso tempo sulla libertà di variazione.

Qui l'opera s'interrompe, manca la trattazione degli stili minori e forse della prosa: alcune allusioni, alcuni cenni e rinvii interni nella parte che possediamo fanno infatti ritenere che Dante intendesse dedicare il terzo libro alla prosa e il quarto allo stile comico.

Il De vulgari eloquentia è, come già s'è osservato, un'opera molto originale, ma anche di passaggio nel pensiero dantesco. La novità del trattato sta nelle intuizioni che dimostrano la saldezza della coscienza linguistica di Dante. Egli ipotizza infatti la comune origine delle lingue romanze, analizza il problema dell'instabilità nello spazio e nel tempo di ogni idioma, traccia per primo il profilo di una storia letteraria italiana e per primo tenta di disegnare la mappa dei dialetti italiani. Ma proprio la precisa consapevolezza della varietà delle lingue e la riflessione sul canone dello stile tragico segnano la conclusione di un percorso. Nella Commedia le posizioni di Dante mutano. Egli ipotizzerà infatti un'evoluzione storica delle lingue naturali, inclusa la lingua edenica e attraverso la scelta stilistica della "mescolanza" supererà definitivamente l'indentificazione dello stile sublime con la tragedìa .


De vulgari eloquentia