Passiamo ora alle radici che risultano di tre lettere, una consonante, una vocale ed un'altra consonante infine. Un esempio molto importante ci viene fornito da dicere che i latini pronunziavano con suono gutturale. La radice di questo verbo è dic; ma siccome abbiamo l'i lungo, è evidente che questa non è la sua forma originale. Noi troviamo questa radice coll'i breve nei derivati, come in judices, veridicus ecc.... Quindi dobbiamo vedere quale è la sua forma originale.L'i e l'u come già si vide sono lettere che si rinforzano dittongandosi; mentre che a, e, o non essendo dittongabili si rinforzano allungandosi. In dic (i breve) perciò vi è stato dittongamento, ed infatti nell'archaico latino abbiamo la forma deico nelle iscrizioni. In sanscrito la radice è dish che rinforzandosi diventa
[parola non leggibile]
e quindi deish donde deic per mezzo della gutturizzazione del c.Così di linquere la radice indo-europea è ric, e infatti in sanscrito abbiamo la radice rish nello stesso significato. Il c di questa radice indo-europea si rimpingua e diventa q, come il c di ca sanscrito che vuol dir "chi" diventa q in qui, quae, quod.
Ducere, facere, jacere, rugere entrano in questa categoria. Da quest'ultimo verbo viene il frequentativo eructare. Vedremo in appresso come i verbi della III conjugazione siano quelli che mantengono meglio la radice indo-europea, e sono perciò più capaci di fornircela.
Tegere, figere, jungere, pungere, mingere ci danno radici somiglianti. A proposito di questo ultimo verbo, cioè di mingere, la sua radice tolta la nasale è mig, che noi ritroviamo in greco nel verbo OMIXEW, dal quale avendo tolto l'o prostetico e la desinenza ci rimane MIX. Così dal verbo LEIXW traggiamo la radice LIX che si ritrova in lingo latino.
Quando non si conoscevano le regole fondamentali della linguistica, vedendo che mich è divenuto mig, si sarebbe detto che il X della radice MIX si era indebolito in un g. Ben altrimenti procede la vera critica.
Le aspirate vengono sempre dalle deboli nell'indo-europeo (g, d, b). Ora il sanscrito talvolta conserva le aspirate, oppure le fa passare a sonore (diconsi le deboli anche sonore), ovvero le fa divenire sorde (le forti hanno anche il nome di sorde), e talvolta conserva le sole aspirate.
La radice di veho per esempio è vagh; l'a si muta in e, e rimane la sola aspirazione. In sanscrito abbiamo vahami, vahasi, vahati, vahamas ecc.... dove si vede anche quanta somiglianza di flessione vi sia con veho.
Così per esempio la radice indo-europea di lingo e LEIXW è righ che in sanscrito diventa rih, in greco assume la forma di LIX prendendo quella aspirata che corrisponde appunto al gh.
Lo stesso dunque si dica di mingo la cui radice indo-europea è migh. Questa in greco diviene MIX ed in latino conserva la debole perdendo l'aspirazione. Questa radice mig rinforzata diviene maig. Ora, siccome in sanscrito a + i = e come a + u = o, questa forma indo-europea maig = sanscrito meg. Ed appunto in sanscrito abbiamo una parola mega la quale vuol dir "nuvola". In sanscrito la nuvola est ea quae mingit, "la pisciante". Nel dialetto napoletano si usa nel linguaggio volgare di una espressione analoga per significare che piove per solito il giorno di S. Teresa. Abbiamo pure mejere che ha la stessa radice di mingo, avendone lo stesso significato. Perché mejo sta per mijo che viene da mighio. Si è poi sostituito l'e all'i per dissimilazione, essendo lo j troppo simile all'i.
Come mejere ha per radice migh; così ajere ha per radice agh indo-europeo, che in sanscrito diviene ah; ed in fatti aha in sanscrito vuol dire "disse", non avendo questo verbo una compiuta flessione. L'a lungo che vediamo in aha dipende dalla fusione di due a. La vera forma sarebbe a-ah-a. Quindi la forma primitiva di ajo è aghio.
Così major deve ricondursi a maghior per legge fonetica. Noi ritroviamo la radice ag di ajo in un suo nome derivato, cioè adagium, dove il g si è palatinizzato.
A proposito di vehimus si è fatto osservare che la I persona plurale in genere si forma dalla desinenza della I persona singolare e della III persona singolare imperò che il noi non è altro che io ed egli.